lunedì 17 novembre 2014

TOM PETTY

Il concetto di american band, intesa come una oliata macchina da guerra per rock da arene, ha un significato chiaro solo agli americani. Se lo inventarono i Grand Funk Railroad negli anni settanta, e per questo sono stati ingiustamente spernacchiati dall’intellighentia critica del tempo, tanto che Matt Groening li fece diventare provocatoriamente la band preferita di Homer Simpson, l’americano medio per antonomasia anche nei difetti e nei gusti beceri. Che sia la E-street Band di Bruce Springsteen o la Silver Bullet Band di Bob Seger, gli esempi di grandi carrozzoni nati per dare vita a maratone rock senza troppe menate intellettuali sono tanti, ma oggi i migliori per impatto live e perizia tecnica sono gli Heartbreakers. Non a caso infatti Hypnotic Eye (Reprise), nuovo album della gloriosa ditta Tom Petty & The Heartbreakers, si affida completamente alla potenza del loro sound e alla chitarra di Mike Campbell. Una scelta stilistica intrapresa già con il precedente Mojo, sapientemente virata verso toni hard-blues (Fault Lines) anche per sopperire ad una certa perdita di sensibilità pop del padrone di casa. Petty ha infatti smesso da tempo di essere un infallibile hit-maker, e il suo sogno americano è oggi passato al Piano B (American Dream Plan B è il singolo apripista), seppellendo le sue tipiche trame byrdsiane sotto un muro di chitarre iper-amplificate. E’ la sua personale rilettura del concetto di Classic-Rock, una filosofia che si accontenta dei rocciosi giri hard di All You Can Carry o dell’iniezione di energia di Forgotten Man in attesa di far brillare il tutto al primo concerto. Anche la sua musica esce dagli studi di registrazione e diventa puro mezzo per animare show dal vivo, lasciando forse il rammarico per la mancanza di quelle melodie “alla Petty” che hanno reso grandi i dischi del passato. E anche quando ci prova, come in U Get Me High o Full Grown Boy, si continua ad apprezzare più la band dell’autore. Poco male, i 44 minuti di Hypnotic Eye riempiono le casse dello stereo (o degli smartphone?) come pochi gruppi ormai sanno fare, e anche se Petty non scrive più una nuova Free Fallin’, i suoi dischi ora sono davvero quelli di una perfetta american-band.

Nicola Gervasini

venerdì 14 novembre 2014

LA ROSA TATUATA


 La Rosa TatuataScarpe[Club de Musique/ IRD 2014] 

www.larosatatuata.com

 File Under: Zena's rock

di Nicola Gervasini (25/08/2014)

Nell'eterna sfida di conciliare la tradizione ital-folk alla De Andrè con il rock e il blues americano, i genovesi La Rosa Tatuata possono essere annoverati tra i pochi ad aver raggiunto risultati importanti. Complice la storica e ancora viva collaborazione con il chitarrista Paolo Bonfanti, uno che sull'argomento ha detto molto e sempre troppo poco gli verrà riconosciuto, il combo guidato da Giorgio Ravera aveva fatto centro nel 2006 con Caino, terzo album di una saga iniziata nel 1992 con un nome da blues-band come Little Bridge Street Band. Il disco (prodotto proprio dal citato Bonfanti con la supervisione di Jono Manson) aveva riscosso tutti i riconoscimenti di settore (Targa Mei, Premio Ciampi, Premio Augusto Daolio), ma nel 2008 l'improvvisa morte del loro leader Max Parodi (inutile dire a chi è dedicato questo album quindi...) aveva bloccato le lavorazioni per il disco successivo.

Ravera ha dunque riassemblato la band intorno alla sezione ritmica di Massimiliano Di Fraia e Nicola Bruno, il sax di Filippo Sarti e le ottime chitarre di Massimo Olivieri, e ha confermato Bonfanti in cabina di regia. Il bluesman ligure mette a disposizione la sua esperienza, la sua chitarra come valore aggiunto, e si concede anche una parte vocale nella sua Bei Tempi Andati, ma il disco è al 100% un buon prodotto di rock italico, dove la lingua resta sempre uno scoglio da superare quando si affronta una melodia tipicamente da heartland-rock come Tutto Quel Che Arriverà, ma il sound energico e ben calibrato tra toni folk e rock riesce a rendere tutto l'insieme più che credibile. La sequenza iniziale con Terre di Confine (il mito del borderline americano portato in Liguria grazie alla fisarmonica di Roberto Bongianino), Ogni Notte d'Estate e la stessa Bei tempi Andati resta la parte migliore del disco, che si assesta poi tra alti (Danzando con i tuoi Demoni), bassi (lascia un po' perplessi il tono oscuro di Non C'è Più Fame, "impreziosita" da un inopportuno cameo di Trevor, vocalist della band trash metal Sadist, e dalla chitarra del redivivo David Frew degli An Emotional Fish) e qualche numero blues scontatamente piacevole (Scarpe).

Chiusura con la riflessiva Tutti Cercano e la sensazione di un disco che, viste anche le tragiche premesse che ne hanno ritardato la genesi, non ha deluso. Il rock italiano, se ha ancora un senso chiamarlo così, ha ormai raggiunto la sua maturità e i La Rosa Tatuata riescono a ribadirlo. Forse non aggiungono nulla di nuovo a quanto già è stato fatto da loro e da altri, ma, probabilmente, non è neanche loro intenzione farlo.

mercoledì 12 novembre 2014

VERILY SO


Verily So Islands 
[W//M Records/V4V Records 2014]
 

 File under: Darkest things are not the hidden ones


di Nicola Gervasini

Lei disse: "Trova la tua via. Ma per lui era impossibile riuscirci in un giorno di pioggia. E' tutta in quel piccolo romanzo di esistenzialismo indie che è il branoNever Come Back l'essenza della musica dei toscani Verily So, trio che ritroviamo su queste pagine a tre anni dal loro già convincente esordio. E' il senso malinconico della solitudine e dell'incomunicabilità che ci rende tutti simili a piccole isole, espressa quasi come se fosse il tema di un concept-album nelle poche ermetiche parole che compongono i testi di queste otto canzoni. Che sono costruite con semplici impressioni notturne (Ode To The Night) di un senso di vuoto (Nothing In The Middle) e di gelo (Cold Hours) portato alle estreme conseguenze (Sudden Death). Il trio di Cecina è decisamente dark nell'animo, ma pur sempre figlio di una scuola classica che dai Velvet Underground passa attraverso il paisley underground degli anni ottanta e allo shoegaze alla My Bloody Valentine, per arrivare ai Walkabouts (il gioco di voci tra il chitarrista Simone Stefanini e la batterista-cantante Marialaura Specchia li ricorda molto) e una certa indole da slow-indie-band alla Yo La Tengo. Bei suoni (la lunga e elaborata Islands), qualche intelligente variazione sul tema (la piano-song Not At All) e anche qualche cavalcata rock (il bel singolo To Behold, con il pulsante drumming della Specchia in evidenza e un bel video creato con immagini tratte dall'horror-cult Carnival Of Souls di Herk Harvey del 1962) confermano i Verily So come una delle realtà più in crescita dei bassifondi italiani. Che oltretutto avrebbe tutte le carte in regola per essere apprezzata anche oltre i nostri confini, se solo trovassero il modo di farsi sentire.

www.facebook.com/verilyso

lunedì 10 novembre 2014

MATT WALDON


 Matt Waldon Learn to Love[Arkham Records 2014] 

www.mattwaldon.com

 File Under: down the road

di Nicola Gervasini (16/05/2014)

Impara ad amare giù in strada. Potrebbe essere tutto nel ritornello di Learn To Love il senso di fare musica di Matt Waldon, ma potremmo allargarci a tutto il parco di autori e gruppi italiani che ancora seguono la scia della musica americana. Una strada forse vecchia, polverosa, che a livello mainstream stanno un po' abbandonando gli stessi americani, per cui figuratevi quanto difficile e impervia sia percorrerla da Rovigo. Ma niente paura, la storia ci ha già insegnato i corsi e ricorsi della storia, e attendiamo un nuovo Ryan Adams che dia una nuova spinta al genere (quello vecchio pare aver ormai esaurito il suo ruolo guida). Intanto da noi il settore cresce, non purtroppo in termini di audience, quanto di qualità. Abbiamo seguito le vicende di Matt Waldon fin dagli esordi con i Miningtown e continueremo a farlo, perché il ragazzo sta maturando, e con questo album forse siamo giunti al livello desiderato.

Intanto sta frequentando le persone giuste, veri e propri rock and roll refugees come Kevin Salem (che assume anche funzioni da ingegnere del suono) o Neal Casal, gente che negli anni 90 segnava la via, e che ora vivono da oscuri sideman (Casal ormai definitivamente riciclato da Chris Robinson come chitarrista, anche se non ha mai smesso di pubblicare a proprio nome). Learn To Love è un buon disco di "ita-americana", anche grazie ad un lavoro in studio decisamente migliore che nei precedenti capitoli. Waldon resta un autore che ancora deve trovare una sua via, i suoi testi abusano ancora delle parole "road", "night" e "car", si riferiscono quasi sempre ad una lei, non sappiamo quanto ipotetica, insomma seguono la linea poetica pur sempre efficace del romantico eroe di strada. Nulla di male in fondo, il rock americano su questa epica ci ha campato per cinquant'anni. In ogni caso le chitarre sofferte di Broken riempiono le casse dello stereo in una iper-amplificazione del dolore che suona davvero bene. La chitarra di Casal contrappunta la title-track, mentre in The Heart is a Lonely Hunter ricorda addirittura Tom Ovans.

Waldon oggi usa molto meglio la voce, e spesso prova ad arrochirla (You Can Run As Far), aumentando il tono decisamente dark-folk del disco. Persino quando il clima si fa più romantico (Under Your Breath, con Salem alla chitarra), il duetto con la voce di Samanta Garda fa quasi tornare alla mente certi vecchi dischi della Handsome Family, mentre Devil On The Freeway addirittura sa del sound dei Walkabouts. Non si inventa nulla ovviamente, Fast Clouds ad esempio usa lo stra-abusato incedere alla Dead Flowers (o metteteci una qualsiasi ballad di John Fogerty), ma alla fine funziona bene. Da segnalare anche una bella cover di New York City di Keith Caputo, uno che nella vita, oltre ad essere diventato anche formalmente una donna, faceva il folksinger e contemporaneamente il leader della band heavy metal Life Of Agony. Disco autoprodotto, con una maniacale cura nella confezione (con tanto di plettro personalizzato in allegato), Learn To Love si pone come una delle uscite più significative del nostro rock di questa annata. 

venerdì 7 novembre 2014

NATHAN BELL

NATHAN BELL
BLOOD LIKE A RIVER
American Family
***
Ogni tanto ci dimentichiamo del significato originario della parola folk. L’abbiniamo con facilità ad altre formule (folk-rock, indie-folk, siamo arrivati anche al folk-pop con i Lumineers), forse perché ormai i veri dischi folk sono sempre più rari e relegati ai bassifondi. Come quello di Nathan Bell, folksinger nella vera accezione del termine, che lo vede armato di sola chitarra inscenare quei telegiornali musicali tanto cari a Phil Ochs con una particolare propensione all’umanesimo dei poveri e dei dimenticati. Blood Like a River quindi, o, come diremmo noi, sangue a fiumi, quello che scorre nelle vene di racconti intimi e comunitari al tempo stesso. Esattamente quello che un folksinger dovrebbe sempre fare. Bell però ama dare una versione intima e personale del folk, non tanto negli schemi, che sono quelli della tradizione più roots-oriented alla Jack Hardy fino ad arrivare ai momenti più folkish di Greg Brown, quanto nei testi, piccoli diari di una vita (The Snowman) che si alternano a campionari umani da non dimenticare (Names). Nelle note di copertina la scrittrice Elissa Wald descrive l’importanza che la sua musica (fa riferimento soprattutto al suo album precedente Black Crow Blue del 2011) ha avuto sulla sua ispirazione, e definisce la sua musica come dei “Ritratti color seppia dei tipici caratteri americani”. Dal punto di vista musicale Bell non lascia scampo: il disco è stato scritto e registrato in trenta giorni in assoluta solitudine e senza ricorrere a cover acchiappa-appassionati, se non il fatto che Blue Kentucky Gone cita apertamente Blue Kentucky Girl di Emmylou Harris. Facile sarebbe quindi trovare Blood Like A River noioso, e sicuramente Bell non si è molto preoccupato di concedere qualche momento di svago in questi cinquanta minuti di words&Music, regalandoci un disco notturno che necessita attenzione, quel genere di cosa che nemmeno più gli appassionati di musica riescono a riservare ad un album nuovo. Ma è un disco che rifonda un modo solitario di fare musica americana che è anche più che antico, ma potrebbe poi essere il modo giusto per ripartire: dalle origini, dalla base di un modo di fare songwriting che resta prezioso.


Nicola Gervasini

mercoledì 5 novembre 2014

KEN STRINGFELLOW

KEN STRINGFELLOW
 I NEVER SAID I’D MAKE IT EASY
Lojinx/Planet
***1/2

Noto ai più come uno dei session-man più utilizzati dai REM negli anni 2000, ma in verità uomo un po’ ovunque del mondo power-pop, Ken Stringfellow non ha mai dato troppo peso alla sua carriera solista. I Never Said I’d Make It Easy, titolo quanto mai esplicativo sul perché pubblichi poco a suo nome, è una raccolta che capitalizza i riconoscimenti avuti come membro dei Posies, dei Minus 5 o dei riformati Big Star (per dire solo alcune delle band in cui ha militato), riunendo i sedici brani migliori della sua epopea solista. Dal 1997 ad oggi Ken ha pubblicato quattro album (This Sounds Like Goodbye del 1997, Touched del 2001, Soft Commands nel 2004 e Danzig in the Moonlight nel 2012, quest’ultimo però non considerato per compilare questa raccolta), non contando anche gli EP (da cui qui vengono recuperati comunque due brani da Privet Sides del 2003, composto a due mani con Jon Auer). Dischi sempre molto piacevoli, ma persi nel limbo di un mercato discografico ormai autogestito. Per questo ben venga questo lungo riassunto, perché la “fine art of making pop songs” qui trova un rappresentante di primo livello. I REM , e ancor prima Alex Chilton e i Big Star, restano il modello di riferimento di jingle-jangle songs come Down Like Me, Finding Yourself Alone o Reveal Love, il tutto condito dalla sua vocalità leggera, a metà tra un Marshall Crenshaw più ispirato e un Freedy Johnston degli anni d’oro. Pub rock di vecchio stampo, ma anche qualche concessione alla modernità con la decisamente brit-pop Airscape (siamo dalle parti dei Radiohead già infatuati con l’elettronica), e momenti più disturbati come le schitarrate di Don’t Break The Silence che viaggiano dalle parti del compianto Elliott Smith. Il materiale è tutto già edito, tranne la cover di Kids Don’t Follow, un brano dei primissimi Replacements (era sull’EP Stink del 1982). Tra momenti rilassati (la psycho-folk Ask Me No Questions), azzeccate orchestrazioni (Any Love) e piano-ballads (Known Diamond), la compilation scorre senza intoppi e riesce a non annoiare nonostante la sua necessaria lunghezza (65 minuti). Occasione buona per riscoprire canzoni ignorate dai più, e magari per riaddestrarsi in altre discografie, Posies in primis, dove Stringfellow ha lasciato segni anche più importanti.

Nicola Gervasini

lunedì 3 novembre 2014

DEVON WILLIAMS

DEVON WILLIAMS
GILDING THE LILY
Slumberland
***

Non è la prima volta che incontriamo Devon Williams, già presentato nel 2011 ai tempi del suo secondo album Euphoria. Un nome interessante del mondo indie-pop, per i più attenti già sentito in band minori dell’area di Los Angeles come gli Osker, i Fingers-Cut, i Megamachine e i Lavender Diamond. Degno figlio spirituale di Brian Wilson prima e direi Matthew Sweet poi, Williams è innamorato di cori e melodie eteree e brani che possono apparire leggeri solo ad un primo sommario ascolto. Gilding The Lily, con la sua copertina vintage degna di un oscuro cantautore dei primi anni settanta, prosegue il suo percorso di crescita nell’eterna ricerca della pop-song perfetta, con un sapiente lavoro di fini arrangiamenti operato dal produttore Jorge Elbrecht. E’ un disco di larghe vedute, costruito su chitarre leggere, spesso byrdsiane (Deep In The Back Of Your Mind) , ma con una scrittura che rimanda più a certo pop adulto degli anni 80 alla Prefab Sprout (Games). Non mancano echi di certa new wave del tempo come Pendulum, un brano che starebbe bene anche sul recente disco dei War On Drugs, qualche sviata verso la West Coast più leggera (Around In A Maze), o il momento glam alla Marc Bolan di Puzzle. L’espressione del titolo significa dare una apparenza più attraente a qualcosa che altrimenti si presenterebbe non abbastanza accattivante, forse un riferimento al grande lavoro di ricamo operato su canzoni che probabilmente in una veste scarna e acustica faticherebbero a farsi notare. Perché poi in questo wall of sound di voci e tastiere (ascoltate Rabbit Hole ad esempio), è l’insieme che crea l’effetto prima ancora delle canzoni, un po’ come hanno insegnato a fare i migliori Beach Boys. Gilding the Lily conferma così Devon Williams come un piccolo nuovo Beck, forse più concentrato sulla produzione che sulla scrittura, anche se Will You Let Go of My Heart ad esempio è un bel colpo degno del Lloyd Cole più ispirato. Ha ancora tanta strada da fare, ma certi palati più fini ed esigenti potrebbero già trovarlo più che interessante.

Nicola Gervasini

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