mercoledì 23 dicembre 2015

DANIEL MARTIN MOORE


 Daniel Martin Moore
Golden Age
[
SofaBurn records 2015]
www.danielmartinmoore.com
www.sofaburn.com
 File Under: my morning folk

di Nicola Gervasini (04/11/2015)
Sono passati sette anni da Stray Age, disco di esordio di Daniel Martin Moore che lo lanciò come nuovo credibile esponente di un ritorno alla brit-folk-song, e forse ora è giunto il momento di una riflessione su questa generazione di nuovi figli di Nick Drake. L'occasione arriva con Golden Age, il suo terzo disco (a cui vanno aggiunti due album co-firmati con Ben Sollee e Joan Shelley), dove significativamente l'età randagia dell'esordio si è trasformata in un età dell'oro di un raggiunto successo, per quanto di nicchia. La nostra domanda è però è dove ci stanno portando artisti come lui o come Ryley Walker, il cui Primrose Green ha già dimostrato quest'anno che l'imitazione (in quel caso, evidente, di John Martyn e Tim Buckley) può anche generare ottimi dischi. La risposta invece in questo caso è che Moore ci sta direzionando verso una forma di canzone folk perfetta, forse fin troppo, se non addirittura estetizzante fino alla nausea.

Stavolta Daniel ha buttato a mare lo stile da busker tutto voce e chitarra del primo album, ed è volato in America a farsi produrre un disco da Jim James, il leader dei My Morning Jacket, unendo in uno studio di Louisville due mondi musicali apparentemente agli antipodi. Il risultato però è interessante: James dona corpo alle canzoni di Moore con i suoi arrangiamenti un po' barocchi, grazie ad una band dove spiccano il piano e le tastiere di Dan Dorff, Jr, vero mattatore del disco, e una timida sezione d'archi. Il dubbio e la discussione che andrebbe aperta non sta quindi nell'opportunità dell'ennesimo incontro tra mondo britannico e musica americana, e nemmeno nella capacità di Moore di scrivere brani intensi e adatti ad una qualsiasi giornata uggiosa della vostra vita (per quanto siano gli unici che pare capace di scrivere in maniera convincente), quanto nel chiedersi se poi il suo (come anche quello di Walker) non sia solo un gioco a perfezionare ciò che era già perfetto 45 anni fa.

Non c'è nulla di male a pensarlo, Golden Age è un giocattolino pieno di deliziosi canzoni (come How It FadesLily Mozelle oAnyway) che ti scivolano addosso senza lasciare troppe tracce se non quel senso di malinconia che il disco vuole a tutti i costi comunicare, e alcuni episodi davvero riusciti (la full-band On Our Way Home e soprattutto lo splendido crescendo diProud As We Are) fanno pensare che forse accontentandosi un po' meno di aggiungere solo un briciolo di arrangiamenti in più (oltretutto forse fin troppo legati al marchio di fabbrica di Jim James), si poteva arrivare anche a qualcosa di meglio. Invece qui troppe volte ci si accontenta della suggestione di un piano o di archi messi al punto giusto (In Common Time), finendo solo a produrre un disco bello da sentire, ma che non si imprime nel cuore come vorrebbe. Forse gli manca il fuoco che ha animato il ben più riuscito ultimo disco di Ryley Walker, o forse la sua risposta l'aveva già trovata nel suo piccolo e timido folk degli esordi e non c'era bisogno di cercarla altrove.

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