Todd Snider
Eastside Bulldog
(2016,
Aimless Records)
File
Under: Once we were Warriors
Voglio bene a Todd
Snider. Che non fosse un genio lo si era capito subito in quel lontano
1994, ma il suo esordio Songs From The Daily Planet fu uno
dei migliori esempi di quel cantautorato americano che si stava rimodernando e
tentava di costruire una parvenza di nuova onda. Oggi i protagonisti di quella
stagione di importanti esordi (cito a caso Dan Bern, Matthew Ryan, Phil Cody,
Bocephus King, Richard Buckner, ma vi rimando al nostro speciale sui dischi da Strade
Blu degli anni 90 per un elenco esaustivo) sbarcano tutti il lunario a fatica,
tra produzioni casalinghe senza possibilità di fare storia, e una generale
depressione creativa. Non fu però un fuoco di paglia, la stoffa in questi
autori c’era eccome. Snider la dimostrò ancora, se non altro come fustigatore
della società americana, e perlomeno fino a Devil
You Know del 2006. Musicalmente sempre fin troppo prevedibile ed elementare,
Todd ha sempre avuto almeno dalla sua la penna tagliente, votata ad una satira
vicina a quella del grande Mojo Nixon. Non a caso è un discepolo di John Prine,
uno che però ha saputo scrivere anche brani immortali senza per forza buttarla
sempre sul ridere, e che ha anche avuto produzioni e produttori importanti. Snider
invece da troppi a dischi a questa parte è diventato solo uno dei tanti mal-sopravvissuti
alla distruzione dell’impero del mercato discografico statunitense, e lui certo
non aiuta se poi cerca nuova linfa con un prodotto come Eastside Bulldog. 10
brani, 25 minuti, fate voi il conto della media per brano. E sono dieci scherzi
di vintage-rock anni 50 riletti con apparente modernità, nulla che il Ben
Vaughn dei tempi d’oro non abbia già fatto con ben più talento e convinzione, e
che costituiscono l’ossatura del repertorio proposto già da qualche anno da Todd
nelle vesti del suo alter ego Elmo Buzz, improbabile versione anni 2000 di un
emulo di Hank Williams. Pensare che dobbiate spendere soldi per un prodotto
così minore è davvero difficile, e, al
netto del divertimento di sentire Todd in nella insolita veste di un Eddie
Cochran in vena di gag, il disco non merita davvero troppi ascolti. Anche perché
in questi nove brani (il decimo è pure uno strumentale, guarda caso intitolato Bocephus) non si ravvisano neanche
tracce delle ficcanti invettive che restano in fondo la vera ragione di
continuare a seguirlo, ed è lo stesso Todd ad ammettere che i testi non sono altro
che improvvisazioni fatte in studio a imitazione e scherno dei classici del
rock and roll. Ah Ah Ah! Provo a sorridere a denti stretti, ma solo per
pochi minuti, perché poi riprendo in mano la mia copia autografata di Step Right Up, e un po’ mi viene di piangere.
Nicola Gervasini