lunedì 28 novembre 2016

TODD SNIDER

Todd Snider
Eastside Bulldog
(2016, Aimless Records)
File Under:  Once we were Warriors

Voglio bene a Todd Snider. Che non fosse un genio lo si era capito subito in quel lontano 1994, ma il suo esordio Songs From The Daily Planet fu uno dei migliori esempi di quel cantautorato americano che si stava rimodernando e tentava di costruire una parvenza di nuova onda. Oggi i protagonisti di quella stagione di importanti esordi (cito a caso Dan Bern, Matthew Ryan, Phil Cody, Bocephus King, Richard Buckner, ma vi rimando al nostro speciale sui dischi da Strade Blu degli anni 90 per un elenco esaustivo) sbarcano tutti il lunario a fatica, tra produzioni casalinghe senza possibilità di fare storia, e una generale depressione creativa. Non fu però un fuoco di paglia, la stoffa in questi autori c’era eccome. Snider la dimostrò ancora, se non altro come fustigatore della società americana, e perlomeno fino a Devil You Know del 2006. Musicalmente sempre fin troppo prevedibile ed elementare, Todd ha sempre avuto almeno dalla sua la penna tagliente, votata ad una satira vicina a quella del grande Mojo Nixon. Non a caso è un discepolo di John Prine, uno che però ha saputo scrivere anche brani immortali senza per forza buttarla sempre sul ridere, e che ha anche avuto produzioni e produttori importanti. Snider invece da troppi a dischi a questa parte è diventato solo uno dei tanti mal-sopravvissuti alla distruzione dell’impero del mercato discografico statunitense, e lui certo non aiuta se poi cerca nuova linfa con un prodotto come Eastside Bulldog. 10 brani, 25 minuti, fate voi il conto della media per brano. E sono dieci scherzi di vintage-rock anni 50 riletti con apparente modernità, nulla che il Ben Vaughn dei tempi d’oro non abbia già fatto con ben più talento e convinzione, e che costituiscono l’ossatura del repertorio proposto già da qualche anno da Todd nelle vesti del suo alter ego Elmo Buzz, improbabile versione anni 2000 di un emulo di Hank Williams. Pensare che dobbiate spendere soldi per un prodotto così minore è davvero difficile, e,  al netto del divertimento di sentire Todd in nella insolita veste di un Eddie Cochran in vena di gag, il disco non merita davvero troppi ascolti. Anche perché in questi nove brani (il decimo è pure uno strumentale, guarda caso intitolato Bocephus) non si ravvisano neanche tracce delle ficcanti invettive che restano in fondo la vera ragione di continuare a seguirlo, ed è lo stesso Todd ad ammettere che i testi non sono altro che improvvisazioni fatte in studio a imitazione e scherno dei classici del rock and roll. Ah Ah Ah!  Provo a sorridere a denti stretti, ma solo per pochi minuti, perché poi riprendo in mano la mia copia autografata di Step Right Up, e un po’ mi viene di piangere.

Nicola Gervasini

giovedì 24 novembre 2016

Nick Cave & The Bad Seeds

Nick Cave & The Bad Seeds
Skeleton Tree 
[Bad Seed LTD 2016
]
www.nickcave.com
 File Under: Death is not the end
di Nicola Gervasini (21/09/2016)
Quando leggerete questa recensione, Skeleton Tree sarà già uscito da molti giorni, e avrete già letto non una, ma parecchie critiche entusiastiche, con lodi sperticate al limite di un servizio RAI di Vincenzo Mollica. Giusto: Nick Cave, dopo un decennio di leggero appannamento, è decisamente tornato in forma, e anche questo è un disco importante e, a suo modo, bello. Potremmo entrare nel merito dei singoli brani, ma ripeteremmo discorsi sull'esorcizzazione della morte (quella di suo figlio), sulla musica come surrogato del lettino dello psicoanalista, e sul rumore che produce un'anima sventrata dalla tragedia. I dischi di Cave non sono certo mai stati allegri, da un lato vuoi per la naturale propensione della sua voce e del suo teatrale cantato al melodramma, dall'altro per la sua visione della morte come punto focale di ogni vicenda umana.

Ma, toccato nel personale, Cave si è liberato di tutte le voglie di uscire da quel suono oscuro che ha caratterizzato la sua altalenante produzione degli anni zero, e ha composto otto brani ancora più lenti e tetri del precedente Push The Sky AwayJesus Alone è un singolo decisamente anti-hit, quasi uno spoken-blues, con uno uso di tastiere e sintetizzatori maggiore del solito (Warren Ellis è il vero Deus ex machina produttivo), sui quali poggia anche la successiva Rings Of Saturn. Degli otto brani, alcuni sono funzionali all'idea di fare un disco che sia una vera e propria marcia funebre (Magneto e Anthrocene sono semplici recitati su tappeto sonoro), altri invece dimostrano un autore comunque in stato di grazia (Girl In AmberI Need You). Per quanto resterà un disco importante nella sua discografia, quando passerà lo shock emotivo di un album così "pesante", noteremo magari che il precedente era più vario e meglio strutturato, e che il capolavoro Cave lo aveva saputo fare con "Boatman's Call", dove affrontava gli stessi temi curando molto anche la costruzione di vere e proprie canzoni, e di quelle ci ricorderemo sempre tra qualche anno, non di queste.

Ma un'altra discussione che lancerei è capire come mai gli unici due album che sembrano aver messo d'accordo tutti nel 2016 facendo gridare al capolavoro (questo e Blackstar di David Bowie), siano dischi egualmente lugubri e dedicati alla morte, accomunati da una caparbietà nel crogiolarsi nel dolore da far sembrare "Magic And Loss" di Lou Reed un party-record. Sembra quasi che in assenza di idee nuove, il rock classico possa trovare alti livelli solo scendendo negli inferi del proprio male, e se questo almeno ci garantisce sul fatto che ancora qualcosa di importante ci sia da dire, dall'altro ci fa domandare: visto che ai tempi di Elvis tutto era nato per parlare di ragazze, sesso e automobili, ci sarà mai qualcuno ancora in grado di farci gridare al miracolo con una canzone che semplicemente vuole far ballare e venir voglia di scopare?

martedì 22 novembre 2016

IAN HUNTER

Ian Hunter & The Rant Band
Fingers Crossed 
[Proper 2016
]
www.ianhunter.com
 File Under: Dandy's rock
di Nicola Gervasini (16/09/2016)

Bando alle ciance: un nuovo album di Ian Hunter si compra a scatola chiusa. Inutile leggere recensioni, fare preascolti o chiedere pareri agli amici. Potremmo anche dire che è inutile anche parlarne dopo, per cui questa recensione potrebbe anche chiudersi con un semplice "Hey ragazzi! " - anche se so che voi che leggete ragazzi non lo siete più da tempo - "E' uscito il nuovo album di Ian Hunter, buon ascolto e viva il rock and roll!". Se poi qualcuno di voi osa anche solo chiedere "Ian chi?", se ne vada che qui non è posto per lui. Se poi proprio in queste pagine Ian Hunter è sinonimo di musica doc garantita è anche perché dopo avere da sempre tenuto i piedi in due scarpe (quella del brit-rock di origine glam, e quella di un rock americano quasi roots), in questi suoi ultimi anni il vecchio rocker ha abbracciato soprattutto il secondo ambito con dischi come Shrunken Heads e Man Overboard.

Fingers Crossed arriva quattro anni dopo When I'm President, e continua il sapiente amalgama di suoni USA e reminiscenze dei Mott The Hoople proposto dal suo predecessore. Non potrebbe essere altrimenti un album che inizia con una That's When The trouble Starts che pare un vecchio sguaiato singolo degli Sweet, o che continua con Dandy, dedica allo scomparso David Bowie che, giocando sul vero cognome, inizia con una bella citazione di Dylan (Something is happening Mr. Jones, My brother says you're better than The Beatles or The Stones). Anche Ghosts (cronaca di una visita negli studi della Sun Records) e la bella title track sembrano ricercare la vecchia verve rock di un tempo, ma già White House la ributta sull'american folk, e sulla stessa strada corre anche Bow Street Runners, brano che potrebbe appartenere a un qualunque cantautore di Austin.

Con Morpheus Ian torna a giocare con sontuose orchestrazioni, con risultati sempre soddisfacenti pur nella voluta pomposità del brano (e soprattutto dell'assolo un po' alla Queen). Anche Stranded In Reality è una ballata pregna di chitarre acustiche molto significativa, piccolo punto della situazione di una lunga carriera (il titolo è anche quello di un mega-cofanetto di 30 cd che racchiude tutta la sua discografia in uscita proprio in questi giorni). E singolare che proprio dopo un brano che guarda al passato, ne arrivi uno che si intitola You can't Live In The Past, altra ballatona che prelude allo scanzonato finale di Long Time, sortita in chiave Kinks a chiusura di un album che, manco a dirlo, convince, diverte, e offre il solito campionario di canzoni scritte come il Dio Rock comanda.

E il solito caro vecchio rock and roll, ma che il tempo ce lo conservi sempre così.

mercoledì 16 novembre 2016

Beach Boys/Brian Wilson in 10 dischi

Beach Boys/Brian Wilson in 10 dischi

1)      Beach Boys - The Greatest Hits – Volume 1: 20 Good Vibrations (Capitol, 1995)
Tra il 1962 e il 1965 il surf-rock dei primi Beach Boys ragionava in termini di 45 giri, ed era la musica dei giovani americani che, ancora ignari di quello che il Vietnam gli avrebbe riservato, se la spassavano tra mare, surf e i primi bikini. E restano i Beach Boys più noti al grande pubblico.
2)      Beach Boys - Pet Sounds  (Capitol, 1966)
Il capolavoro in cui Brian Wilson ha insegnato al mondo come realizzare musica lavorando in maniera maniacale sulla (sovra)produzione, sul riempire ogni spazio, sullo studiare ogni particolare. Keith Richards lo detesta per questo, ma non esiste musicista che non lo abbia studiato, ammirato, e infine imitato.
3)      Beach Boys - Smile – (Capitol, 1967, pubblicato solo nel 2011)
10 mesi di registrazioni solitarie di un Brian Wilson in piena estasi creativa diventano il primo Lost -Record della storia. La Capitol, nonostante il potentissimo singolo Good Vibrations, lo rifiuta, lo fa riregistrare, e pubblica l’addomesticato Smile Smiley. Ed è già la fine dei Beach Boys di marca Brian Wilson.
4)      Beach Boys - Sunflower  (Capitol ,1970)
Quarto album di fila a non essere più prodotto dal solo Brian Wilson, ormai destituito dal ruolo di leader a favore di una democratica condivisone dei compiti, Sunflower mette ordine nella confusionaria produzione di fine anni sessanta. Brian recupera qualche vecchia brillante idea, e torna grande.
5)      Beach Boys - Surf’s Up  (Capitol ,1971)
Ad un titolo che sembra richiamare i loro scanzonati esordi, fa da beffardo contraltare una oscura copertina degna di una band heavy metal. I deliri di Wilson tornano a governare, ma intorno a lui sono intanto cresciuti anche gli altri, per quello che è il loro capolavoro della maturità.
6)      Beach Boys - Love You (Reprise, 1977)
Il titolo originale doveva essere “Brian Loves you”, ma ancore una volta la band si appropria di un progetto solista dell’insicuro Brian. Disco delirante, visionario, con pesanti sperimentazioni elettroniche che quasi anticipano la new wave. Wilson evidentemente non voleva morire cantando canzonette, ma il disco fu un flop.
7)      Brian Wilson – Brian Wilson (Reprise,1988)
Il primo vero album solista arriva solo nel 1988, con orrenda copertina adatta ai tempi, e addirittura il proprio terapista tra i contributori in sede di scrittura. Troppi produttori, troppi session men, troppa attesa, eppure resta il più completo catalogo della sua idea di pop.
8)      Brian Wilson - Brian Wilson Presents Smile (Nonsuch, 2004)
37 anni dopo Smile, Brian decide di riappropriarsi della propria opera perduta, riregistrandola con lo stesso stretto collaboratore di un tempo (Van Dyke Parks). Scommessa vinta: il disco suona moderno anche nella sua nuova veste, la nostalgia sta all’angolo, il genio finalmente si esprime.
9)      Brian Wilson – That Lucky Old Sun (Capitol, 2008)
Quando forse nessuno ci sperava più, e prima di capitalizzare il suo buon nome mettendosi al servizio della Walt Disney, Brian realizza il suo progetto solista più riuscito e più vicino a quell’idea di pop da larghe intese che tenta di realizzare da decenni.  E non è mai troppo tardi.
10)   Beach Boys - That's Why God Made the Radio (Capitol,2012)
Brian produce e in qualche modo scrive una riconciliatoria tarda opera in cui sembra arrendersi all’idea di essere comunque un membro di una band. Praticamente i Beach Boys che imitano i Beach Boys, ma essendo una rimpatriata fatta per sostenere un nostalgico tour, poteva anche andare peggio.



venerdì 11 novembre 2016

JOHN PAUL WHITE

Innanzitutto un po' di storia: di John Paul White non ci siamo ancora occupati su queste pagine, se non per la sua buona produzione dell'ultimo album di Donnie Fritts (Oh My Goodness), piccolo sperduto e già dimenticato gioiellino di un autore storico e sfortunato. Nel mondo roots americano invece lui è un po' una piccola nuova star, grazie al paio di album pubblicati a nome Civil Wars (Barton Hollow del 2011 e The Civil Wars nel 2013, che era prodotto nientemeno che da Rick Rubin, e ha pure vinto un Grammy Award), duo, già arrivato al capolinea, creato con la bella cantante Joy Williams. Beulah è dunque il suo atteso "esordio" da solista (in verità nel 2008 pubblicò un album da indipendente intitolato The Long Goodbye), un disco di "gothic folks songs" lo hanno già etichettato sul Rolling Stone americano. 

Noi invece, per darvi subito una coordinata precisa, diciamo che siamo dalle parti del Ryan Adams di Ashes & Fire, cioè dieci ballate country-dark, volutamente lente, strascicate e depresse. White assicura che se è vero che si scrive del sole quando piove, lui scrive di dolore proprio perché si sente felice, e in qualche modo gli crediamo, perché se la voce è quella giusta, il suono pure (non c'è Ethan Jones alla produzione, ma è come se ci fosse nello spirito), le canzoni…dipende. Il discorso è che esordire con un disco che sarebbe stato significativo almeno 15 anni fa non è esattamente quello che ci si aspetta da un artista che ha tutta l'aria di proporsi come nuova mente pensante della roots-music, e che sicuramente vedremo presto impegnato come produttore con altri artisti. Lui si presenta con l'aria del perfetto artista indie-roots dall'aria sofferta e dimessa che dovrebbe garantirgli un po' di seguito, ma il risultato fa quasi sembrare Jonathan Wilson un uomo aperto al futuro. 

In ogni caso, se è ancora questo tipo di songwriter-record che cercate, Beulah fa il caso vostro, con ballate struggenti come Hope I DieMake You Cry Hate The Way You Love Me (già i titoli dicono tutto) che si fanno comunque apprezzare se ascoltate al momento giusto. Chitarre calde e anche tante orchestrazioni (Fight For You), ma anche una certa sensazione di maniera e calligrafia (The Once and Future Queen), e la mancanza di un momento di distensione che male non avrebbe fatto. Ma negli anni zero i dischi da songwriter si facevano così, e John Paul White non ha nessuna intenzione di portarci su nuovi lidi o di osare strade troppo rischiose per uno che ha tutta l'aria di voler viaggiare sempre sicuro e assicurato. A voi decidere se oggi le alternative sono davvero così poche da non poterne farne a meno.

mercoledì 9 novembre 2016

CHARLES BRADLEY

Charles Bradley
Changes

(2016, Daptone Records)
File Under: Old Soul never dies

Ammetto di avere poca fiducia negli sviluppi presenti e futuri del cosiddetto New Soul degli anni 2000, e forse ancora meno ne avevo nelle possibilità del vecchio Charles Bradley di poter dire ancora qualcosa di significativo in materia. Di lui vi abbiamo già parlato in occasione dei due capitoli precedenti (No Time For Dreaming del 2011 e Victim Of Love del 2013), a 68 anni quasi suonati Bradley è un novellino arrivato con questo Changes al terzo capitolo di una carriera iniziata discograficamente a 63 anni, quando il terreno era già da tempo fertile per un emulo di James Brown come lui. Protetto dalla grande ala della Daptone Records, Bradley continua a non avere uno stile proprio e facilmente riconoscibile, eppure in qualche modo in Changes riesce ancor meglio che nei due simpaticamente scolastici album precedenti a stilare una sorta di piccola storia del classic-soul classico in undici canzoni. Si guarda pesantemente alla Stax e ai suoi artisti stavolta, partendo sempre da James Brown (Good To Be Back Home fa incetta di urletti e “Good God!” alla Father of Soul), ma passando presto a suoni da Staples Singers (Nobody But You) o Swamp Dogg (Ain’t Gonna Give It Up), e soprattutto con una title-track che annerisce addirittura la Changes che fu dei Black Sabbath epoca Vol.4. Non è la prima volta che gli artisti della nuova ondata Soul tentano ardite trasposizioni e costruiscono ponti tra genere apparentemente inconciliabili (penso ad esempio a JC Brooks & the Uptown Sound e alla sua riuscita cover di un brano dei Wilco nel 2010, ma l’elenco potrebbe essere lungo), ma Bradley in qualche modo riesce a tenere viva e a non stravolgere troppo l’interpretazione che fu di Ozzy Osbourne, aggiornandola tra maestosi fiati soul e rendendola un nuovo  sofferto canto di amore. Giochi di stile comunque, come tutti quelli che Bradley ci fa ascoltare fino alla fine, sia che si tratti di sentite storie sentimentali (Crazy For Your Love) o maestose invettive socio-politiche (Change For The World). Giochi che continuo a trovare ormai utili solo a tener viva una tradizione che vuole essere vecchia per definizione e mantenere la Black Music ancorata a quella genuina espressione di sentimenti, ritmo e melodia che fu il Soul fino all’avvento del rap e dell’R&B moderno. Impossibile dunque non apprezzare Changes, sicuramente uno dei migliori prodotti New Soul di questi anni dieci, se poi abbia senso perdere tempo con Charles Bradley piuttosto che ripassarsi la discografia di Sly Stone è una questione che vi lascio risolvere da soli.

Nicola Gervasini

martedì 1 novembre 2016

FELICE BROTHERS

Felice Brothers
Life in the Dark
(2016, Yep Roc Records)
File Under: Still searchin’ for the Ghost of Tom Joad

Sullo stato dell’arte dei Felice Brothers in questa metà degli anni dieci vi rimanderei al sunto di carriera fatto in occasione del precedente album Favorite Waitress del 2014. Anche solo per ribadire che il corso intrapreso dalla band con quell’album pare essere quello definitivo, ben confermato dal nuovo Life In The Dark. La sbornia modernista del 2012 è dunque sotterrata e dimenticata: non esiste più un mercato da conquistare, e forse neanche più un mondo artistico da riscrivere, e allora perché non chiudersi in un garage affittato per l’occasione nella Hudson Valley, trasformandolo in uno studio di registrazione grazie a confezioni di uova, proprio come si faceva artigianalmente “ai vecchi tempi”. Ian Felice, assecondato da una nuova line-up ormai consolidata intorno al fratello James, sempre inchiodato sulla sua fisarmonica, il bassista Josh "Christmas Clapton" Rawson, il violinista Greg Farley e il batterista David Estabrook, continua un suo viaggio personale nella tradizione americana, ponendosi forse come la formazione attualmente più vicina alla lezione purista della Band di Robbie Robertson, pur con le debite distanze. Realizzato con il gusto dell’improvvisazione e di un rural-sound iper-conservatore, Life In The Dark è un piccolo viaggio nelle contraddizioni dell’America moderna, lette con taglio tra il cinico e il sarcastico. Prima parte dedicata a brani brevi: il singolo posto in apertura Aerosol Ball è accompagnato da un video fatto da spezzoni di filmini su come si divertivano grandi (con una svestita pin-up vintage) e piccini (giochi di strada di bambini) in America anni fa, ed è un brano che si barcamena tra l’ironico (Every tooth in Duluth is Baby Ruth-proof) e il nostalgico con grande maestria. Sul duello fisarmonica-violino è basata anche la successiva Jack At The Asylum, mentre è con la title-track che si ha il primo acuto del disco, ballatona roots di risaputa ma pur sempre efficace fattura, così come anche la più difficoltosa Triumph ’73 che la segue. Con Plunder arriva il primo azzardo elettrico, con la chitarra di Ian che si lancia in un assolo volutamente stonato, momento quasi rock che si chiude nel minuto e mezzo strumentale di Sally. Il disco prende il volo nell’ipotetico lato b: tre brani che mostrano tutta la grandezza di songwriting di Ian, prima con una Diamond Bell che sembra essere spuntata dalle sessions di Desire di Dylan, lungo racconto di frontiera che anticipa la line-dance di Dancing on the Wing. Finale in tono mesto con Sell The House, storia di miseria di cent’anni fa ancora buona per raccontare un presente basato su un futuro per nulla roseo. L’ America dei Felice Brothers è in fondo ancora la stessa raccontata da Furore di Steinbeck, una continua lunga ricerca di una felicità sottratta dagli eventi e da una società che da terra promessa sta sempre più diventando l’inferno da cui fuggire.


Nicola Gervasini

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