Felice
Brothers
Life
in the Dark
(2016, Yep Roc Records)
File Under: Still searchin’ for the Ghost
of Tom Joad
Sullo stato dell’arte dei
Felice Brothers in questa metà degli
anni dieci vi rimanderei al sunto di carriera fatto in occasione del precedente
album Favorite Waitress del 2014.
Anche solo per ribadire che il corso intrapreso dalla band con quell’album pare
essere quello definitivo, ben confermato dal nuovo Life In The Dark. La sbornia modernista del 2012 è dunque sotterrata
e dimenticata: non esiste più un mercato da conquistare, e forse neanche più un
mondo artistico da riscrivere, e allora perché non chiudersi in un garage
affittato per l’occasione nella Hudson Valley, trasformandolo in uno studio di
registrazione grazie a confezioni di uova, proprio come si faceva
artigianalmente “ai vecchi tempi”. Ian
Felice, assecondato da una nuova line-up ormai consolidata intorno al
fratello James, sempre inchiodato sulla sua fisarmonica, il bassista Josh
"Christmas Clapton" Rawson, il violinista Greg Farley e il batterista
David Estabrook, continua un suo viaggio personale nella tradizione americana,
ponendosi forse come la formazione attualmente più vicina alla lezione purista
della Band di Robbie Robertson, pur con le debite distanze. Realizzato con il
gusto dell’improvvisazione e di un rural-sound
iper-conservatore, Life In The Dark è
un piccolo viaggio nelle contraddizioni dell’America moderna, lette con taglio
tra il cinico e il sarcastico. Prima parte dedicata a brani brevi: il singolo
posto in apertura Aerosol Ball è
accompagnato da un video fatto da spezzoni di filmini su come si divertivano
grandi (con una svestita pin-up vintage) e piccini (giochi di strada di
bambini) in America anni fa, ed è un brano che si barcamena tra l’ironico (Every tooth in Duluth is Baby Ruth-proof)
e il nostalgico con grande maestria. Sul duello fisarmonica-violino è basata
anche la successiva Jack At The Asylum,
mentre è con la title-track che si ha il primo acuto del disco, ballatona roots
di risaputa ma pur sempre efficace fattura, così come anche la più difficoltosa
Triumph ’73 che la segue. Con Plunder arriva il primo azzardo
elettrico, con la chitarra di Ian che si lancia in un assolo volutamente
stonato, momento quasi rock che si chiude nel minuto e mezzo strumentale di Sally. Il disco prende il volo
nell’ipotetico lato b: tre brani che mostrano tutta la grandezza di songwriting
di Ian, prima con una Diamond Bell
che sembra essere spuntata dalle sessions di Desire di Dylan, lungo racconto di
frontiera che anticipa la line-dance di Dancing
on the Wing. Finale in tono mesto con Sell
The House, storia di miseria di cent’anni fa ancora buona per raccontare un
presente basato su un futuro per nulla roseo. L’ America dei Felice Brothers è
in fondo ancora la stessa raccontata da Furore di Steinbeck, una continua lunga
ricerca di una felicità sottratta dagli eventi e da una società che da terra promessa
sta sempre più diventando l’inferno da cui fuggire.
Nicola Gervasini
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