Innanzitutto un po' di storia: di John Paul White non ci siamo ancora occupati su queste pagine, se non per la sua buona produzione dell'ultimo album di Donnie Fritts (Oh My Goodness), piccolo sperduto e già dimenticato gioiellino di un autore storico e sfortunato. Nel mondo roots americano invece lui è un po' una piccola nuova star, grazie al paio di album pubblicati a nome Civil Wars (Barton Hollow del 2011 e The Civil Wars nel 2013, che era prodotto nientemeno che da Rick Rubin, e ha pure vinto un Grammy Award), duo, già arrivato al capolinea, creato con la bella cantante Joy Williams. Beulah è dunque il suo atteso "esordio" da solista (in verità nel 2008 pubblicò un album da indipendente intitolato The Long Goodbye), un disco di "gothic folks songs" lo hanno già etichettato sul Rolling Stone americano.
Noi invece, per darvi subito una coordinata precisa, diciamo che siamo dalle parti del Ryan Adams di Ashes & Fire, cioè dieci ballate country-dark, volutamente lente, strascicate e depresse. White assicura che se è vero che si scrive del sole quando piove, lui scrive di dolore proprio perché si sente felice, e in qualche modo gli crediamo, perché se la voce è quella giusta, il suono pure (non c'è Ethan Jones alla produzione, ma è come se ci fosse nello spirito), le canzoni…dipende. Il discorso è che esordire con un disco che sarebbe stato significativo almeno 15 anni fa non è esattamente quello che ci si aspetta da un artista che ha tutta l'aria di proporsi come nuova mente pensante della roots-music, e che sicuramente vedremo presto impegnato come produttore con altri artisti. Lui si presenta con l'aria del perfetto artista indie-roots dall'aria sofferta e dimessa che dovrebbe garantirgli un po' di seguito, ma il risultato fa quasi sembrare Jonathan Wilson un uomo aperto al futuro.
In ogni caso, se è ancora questo tipo di songwriter-record che cercate, Beulah fa il caso vostro, con ballate struggenti come Hope I Die, Make You Cry o Hate The Way You Love Me (già i titoli dicono tutto) che si fanno comunque apprezzare se ascoltate al momento giusto. Chitarre calde e anche tante orchestrazioni (Fight For You), ma anche una certa sensazione di maniera e calligrafia (The Once and Future Queen), e la mancanza di un momento di distensione che male non avrebbe fatto. Ma negli anni zero i dischi da songwriter si facevano così, e John Paul White non ha nessuna intenzione di portarci su nuovi lidi o di osare strade troppo rischiose per uno che ha tutta l'aria di voler viaggiare sempre sicuro e assicurato. A voi decidere se oggi le alternative sono davvero così poche da non poterne farne a meno.
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