Fingers Crossed [Proper 2016] www.ianhunter.com File Under: Dandy's rock di Nicola Gervasini (16/09/2016) |
Bando alle ciance: un nuovo album di Ian Hunter si compra a scatola chiusa. Inutile leggere recensioni, fare preascolti o chiedere pareri agli amici. Potremmo anche dire che è inutile anche parlarne dopo, per cui questa recensione potrebbe anche chiudersi con un semplice "Hey ragazzi! " - anche se so che voi che leggete ragazzi non lo siete più da tempo - "E' uscito il nuovo album di Ian Hunter, buon ascolto e viva il rock and roll!". Se poi qualcuno di voi osa anche solo chiedere "Ian chi?", se ne vada che qui non è posto per lui. Se poi proprio in queste pagine Ian Hunter è sinonimo di musica doc garantita è anche perché dopo avere da sempre tenuto i piedi in due scarpe (quella del brit-rock di origine glam, e quella di un rock americano quasi roots), in questi suoi ultimi anni il vecchio rocker ha abbracciato soprattutto il secondo ambito con dischi come Shrunken Heads e Man Overboard.
Fingers Crossed arriva quattro anni dopo When I'm President, e continua il sapiente amalgama di suoni USA e reminiscenze dei Mott The Hoople proposto dal suo predecessore. Non potrebbe essere altrimenti un album che inizia con una That's When The trouble Starts che pare un vecchio sguaiato singolo degli Sweet, o che continua con Dandy, dedica allo scomparso David Bowie che, giocando sul vero cognome, inizia con una bella citazione di Dylan (Something is happening Mr. Jones, My brother says you're better than The Beatles or The Stones). Anche Ghosts (cronaca di una visita negli studi della Sun Records) e la bella title track sembrano ricercare la vecchia verve rock di un tempo, ma già White House la ributta sull'american folk, e sulla stessa strada corre anche Bow Street Runners, brano che potrebbe appartenere a un qualunque cantautore di Austin.
Con Morpheus Ian torna a giocare con sontuose orchestrazioni, con risultati sempre soddisfacenti pur nella voluta pomposità del brano (e soprattutto dell'assolo un po' alla Queen). Anche Stranded In Reality è una ballata pregna di chitarre acustiche molto significativa, piccolo punto della situazione di una lunga carriera (il titolo è anche quello di un mega-cofanetto di 30 cd che racchiude tutta la sua discografia in uscita proprio in questi giorni). E singolare che proprio dopo un brano che guarda al passato, ne arrivi uno che si intitola You can't Live In The Past, altra ballatona che prelude allo scanzonato finale di Long Time, sortita in chiave Kinks a chiusura di un album che, manco a dirlo, convince, diverte, e offre il solito campionario di canzoni scritte come il Dio Rock comanda.
E il solito caro vecchio rock and roll, ma che il tempo ce lo conservi sempre così.
Fingers Crossed arriva quattro anni dopo When I'm President, e continua il sapiente amalgama di suoni USA e reminiscenze dei Mott The Hoople proposto dal suo predecessore. Non potrebbe essere altrimenti un album che inizia con una That's When The trouble Starts che pare un vecchio sguaiato singolo degli Sweet, o che continua con Dandy, dedica allo scomparso David Bowie che, giocando sul vero cognome, inizia con una bella citazione di Dylan (Something is happening Mr. Jones, My brother says you're better than The Beatles or The Stones). Anche Ghosts (cronaca di una visita negli studi della Sun Records) e la bella title track sembrano ricercare la vecchia verve rock di un tempo, ma già White House la ributta sull'american folk, e sulla stessa strada corre anche Bow Street Runners, brano che potrebbe appartenere a un qualunque cantautore di Austin.
Con Morpheus Ian torna a giocare con sontuose orchestrazioni, con risultati sempre soddisfacenti pur nella voluta pomposità del brano (e soprattutto dell'assolo un po' alla Queen). Anche Stranded In Reality è una ballata pregna di chitarre acustiche molto significativa, piccolo punto della situazione di una lunga carriera (il titolo è anche quello di un mega-cofanetto di 30 cd che racchiude tutta la sua discografia in uscita proprio in questi giorni). E singolare che proprio dopo un brano che guarda al passato, ne arrivi uno che si intitola You can't Live In The Past, altra ballatona che prelude allo scanzonato finale di Long Time, sortita in chiave Kinks a chiusura di un album che, manco a dirlo, convince, diverte, e offre il solito campionario di canzoni scritte come il Dio Rock comanda.
E il solito caro vecchio rock and roll, ma che il tempo ce lo conservi sempre così.
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