Current Joys
Voyager
(Secretly Canadian, 2021)
File Under: Space Pop
C’è una storia che definirei di
epica moderna dietro il nickname di Current Joys. La sigla infatti appartiene
a Nick Rattigan, uno dei tanti giovani che più di dieci anni fa è stato
incoraggiato a suonare e registrare dall’attento pubblico del social MySpace,
probabilmente l’unico sito che ha davvero contribuito a creare un contatto
reale tra nuovi artisti e nuovi ascoltatori in questi anni duemila, community
purtroppo dispersa dopo breve tempo dall’avvento di social meno mirati ma più
inclusivi (oggi si tenta di resuscitarlo, ma i tempi sono purtroppo cambiati).
A partire dal 2011 Rattigan ha cominciato a registrare cambiando ogni volta
nome d’arte (i primi furono The Nicholas Project, TELE/VISIONS, ma la lista è
lunga), ma soprattutto in questi dieci anni si è anche lanciato in altre imprese,
che lo hanno visto prodigarsi come leader di una band di “surf-punk (i Surf
Curse), scrittore, regista (oltre ai suoi, ha girato anche un video per i
Girlpool), giornalista e fotografo. Insomma, un poliedrico entusiasta
dell’arte, ma anche un talento dispersivo e non sempre abile a riordinare tante
idee in un prodotto totalmente maturo. E così questo Voyager, nono disco
in carriera e quarto uscito sotto la sigla Current Joys, non è un caso che esca
dopo ben tre anni (una eternità per i suoi ritmi) dal precedente A Different
Age, perché l’album ha tutta l’aria del salto di qualità finalmente
ponderato con calma. Non che ci sia da salutare una grande rivoluzione musicale,
questi brani affondano infatti le mani in tradizioni molto consolidate di
indie-rock anni 2000, con il pensiero che va innanzitutto agli Okkervil River,
anche per una certa somiglianza della voce con quella di Will Sheff, ma anche per
certi arrangiamenti, che da uno scarno folk stralunato alla Robyn Hitchcock (The
Spirit of the Curse) cercano armonizzazioni (Dancer in the Dark) e
leziosità che quasi ricordano certe cose degli Shearwater (per rimanere sempre nella
stessa famiglia degli Okkervil River), oppure alcune soluzioni del Damien
Jurado più maturo e desideroso di vestire le proprie canzoni. 16 brani in 54
minuti di musica, lunghezza che quindi ancora non si arrende ai tempi da
streaming (pare che solo il 20% degli ascoltatori vada oltre il terzo brano di
un singolo disco, il che spiega l’ormai ingestibile invasione del formato EP),
che forse avrebbe avuto bisogno ancora di qualche taglio in più per arrivare ad
un lavoro veramente unitario e di ugual intensità dall’inizio alla fine, ma in
ogni caso l’opera nel complesso non arriva mai ad annoiare. Risaltano alcuni brani
come American Honey e Altered States ma anche i momenti più
movimentati di Naked e Money Making Machine o quelli più
genuinamente pop come Calypso, Amateur o la “paulwelleriana” title-track
che chiude al piano un disco più che discreto.
Nicola Gervasini
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