mercoledì 8 settembre 2021

NEILSON HUBBARD

 


Neilson Hubbard

Digging Up The Scars

(Appaloosa, 2021)

File Under: Strings Folk

In un certo senso potremmo dire che un bel disco di Neilson Hubbard era nell’aria da tempo. Il quarantottenne produttore di Nashville, infatti, ultimamente si era speso in prima persona per il bel progetto degli Orphan Brigade (e anni prima con gli Strays Don’t Sleep insieme a Matthew Ryan), e come collaboratore dietro la consolle per gli amici Ben Glover e Joshua Britt (ma sempre da lui si servono anche Rod Picott, le Worry Dolls, Mary Gauthier, Sam Baker e la lista sarebbe ancora lunga). Anche i suoi dischi solisti sono sempre stati abbastanza apprezzati, ma forse è solo per questo Digging Up The Scars, già ottavo capitolo dal 1997 ad oggi, che Neilson sembra avere trovato suono e canzoni per fare un piccolo colpo e scuotere un po’ l’intorpidito mondo della roots music americana. Non che Digging Up The Scars non sia destinato ad avere i soliti riscontri commerciali limitati del genere, ma l’impressione è che in queste canzoni ci sia il seme di qualche cambio di rotta che in qualche modo auspichiamo. I brani sono una sorta di unitario dialogo tra lui e la sua compagna (nel precedente album ne aveva raccontato il matrimonio), con tutte le domande sulla vita e sul futuro che vengono ad una coppia che chiede solo di poter costruire la propria quotidianità in serenità, e partendo da una presa di coscienza del proprio modo di essere (Our DNA) fino al dolce finale di Slipping Away, Hubbard costruisce una serie di dolci ballate (di base country-songs d’autore) tutte costruite sull’intreccio tra la sua voce e la sua chitarra acustica e la onnipresente pedal-steel di Juan Solorzano (la band prevede anche Joshua Britt al mandolino e la grande chitarra di Will Kimbrough). Quello che però aggiunge davvero grande valore ad un album già di per sé intenso e riuscito sono gli arrangiamenti orchestrali che Hubbard ha pensato per ogni singolo brano, qualcosa che forse qualcuno potrebbe trovare anche un appesantimento (se non proprio stucchevole), ma che ricrea l’atmosfera di certe orchestrazioni che venivano spesso aggiunte ai brani dei cantautori di Nashville nei primi anni settanta, o più semplicemente cercano un concetto non dissimile da quello teorizzato dallo Springsteen di Western Stars. Insomma, quasi fosse un novello Randy Newman, Hubbard si diverte a fare l’arrangiatore di sé stesso nel migliore dei modi, e forse proprio la sensazione che anche per fare un disco comunque destinato a vendere poco ci sia spesi in un lavoro di produzione così certosino lascia piacevolmente di stucco. “Nobody is making records like this anymore” recita la sua presentazione, e per una volta l’esagerazione tipica degli uffici stampa non suona totalmente fuori luogo, perché qui abbiamo un artista che sa dare un colore intenso ai suoni come un Joe Henry o un T-Bone Burnett quando producono dischi altrui, ma senza l’idea di voler sottrare a tutti i costi, ma semmai riempire gli spazi (vanno citati anche i fiati suonati dal tastierista Danny Mitchell), con anche il vantaggio di saper scrivere delle ottime canzoni cantate in uno stile che ricorda molto quello di Ray Lamontagne. Ve lo consigliamo anche se la stagione e la voglia di uscire non è la migliore per un disco così intimo e autunnale.

 

Nicola Gervasini

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