Neilson
Hubbard
Digging
Up The Scars
(Appaloosa,
2021)
File Under: Strings Folk
In un certo senso potremmo dire
che un bel disco di Neilson Hubbard era nell’aria da tempo. Il quarantottenne
produttore di Nashville, infatti, ultimamente si era speso in prima persona per
il bel progetto degli Orphan Brigade (e anni prima con gli Strays Don’t Sleep insieme
a Matthew Ryan), e come collaboratore dietro la consolle per gli amici Ben
Glover e Joshua Britt (ma sempre da lui si servono anche Rod Picott, le Worry
Dolls, Mary Gauthier, Sam Baker e la lista sarebbe ancora lunga). Anche i suoi
dischi solisti sono sempre stati abbastanza apprezzati, ma forse è solo per
questo Digging Up The Scars, già ottavo capitolo dal 1997 ad oggi, che Neilson
sembra avere trovato suono e canzoni per fare un piccolo colpo e scuotere un
po’ l’intorpidito mondo della roots music americana. Non che Digging Up The
Scars non sia destinato ad avere i soliti riscontri commerciali limitati del
genere, ma l’impressione è che in queste canzoni ci sia il seme di qualche
cambio di rotta che in qualche modo auspichiamo. I brani sono una sorta di
unitario dialogo tra lui e la sua compagna (nel precedente album ne aveva
raccontato il matrimonio), con tutte le domande sulla vita e sul futuro che
vengono ad una coppia che chiede solo di poter costruire la propria
quotidianità in serenità, e partendo da una presa di coscienza del proprio modo
di essere (Our DNA) fino al dolce finale di Slipping Away,
Hubbard costruisce una serie di dolci ballate (di base country-songs d’autore)
tutte costruite sull’intreccio tra la sua voce e la sua chitarra acustica e la onnipresente
pedal-steel di Juan Solorzano (la band prevede anche Joshua Britt al mandolino
e la grande chitarra di Will Kimbrough). Quello che però aggiunge davvero
grande valore ad un album già di per sé intenso e riuscito sono gli
arrangiamenti orchestrali che Hubbard ha pensato per ogni singolo brano,
qualcosa che forse qualcuno potrebbe trovare anche un appesantimento (se non
proprio stucchevole), ma che ricrea l’atmosfera di certe orchestrazioni che venivano
spesso aggiunte ai brani dei cantautori di Nashville nei primi anni settanta, o
più semplicemente cercano un concetto non dissimile da quello teorizzato dallo Springsteen
di Western Stars. Insomma, quasi fosse un novello Randy Newman, Hubbard si
diverte a fare l’arrangiatore di sé stesso nel migliore dei modi, e forse
proprio la sensazione che anche per fare un disco comunque destinato a vendere
poco ci sia spesi in un lavoro di produzione così certosino lascia
piacevolmente di stucco. “Nobody is making records like this anymore” recita la
sua presentazione, e per una volta l’esagerazione tipica degli uffici stampa
non suona totalmente fuori luogo, perché qui abbiamo un artista che sa dare un
colore intenso ai suoni come un Joe Henry o un T-Bone Burnett quando producono
dischi altrui, ma senza l’idea di voler sottrare a tutti i costi, ma semmai riempire
gli spazi (vanno citati anche i fiati suonati dal tastierista Danny Mitchell),
con anche il vantaggio di saper scrivere delle ottime canzoni cantate in uno
stile che ricorda molto quello di Ray Lamontagne. Ve lo consigliamo anche se la
stagione e la voglia di uscire non è la migliore per un disco così intimo e
autunnale.
Nicola Gervasini
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