Gary Moore - How Blue
Can You Get (Provogue/Mascot Label Group)
Tony Joe White - Smoke From The Chimney (Easy Eye Sound)
A scuola ci hanno insegnato che
Virgilio non considerava affatto l’Eneide come conclusa, e che solo la morte prematura
gli impedì di rimetterci mano per una nuova revisione, ma si sa che quando
un‘opera diventa immortale neppure il suo autore ne è davvero più proprietario.
Ci sarebbe quindi da fare anche una bella lista di quanti album “postumi” nel
corso della storia della musica rock sarebbero in verità stati ben diversi se
solo l’autore fosse stato in vita. Per questo ho sempre considerato la
categoria dell’album inedito come qualcosa da considerarsi in maniera acritica,
un puro documento storico e oggetto per buono per i fans dediti al “completismo”,
pur sapendo che spesso nei cassetti degli autori che vengono a mancare ci si
ritrova autentici tesori.
E si capisce anche che le famiglie
degli artisti abbiano ragionevolmente voglia di omaggiare i propri cari scomparsi,
e magari guadagnarci anche qualcosa (nessuno scandalo, anche l’inedito fa parte
dell’asse ereditario in fondo), e la differenza sta solo nella cura e nel
rispetto che ci mettono nell’operazione. Per questo vanno salutati con piacere
dischi come How Blue Can You Get, otto registrazioni inedite di Gary Moore
uscite a dieci anni esatti dalla morte, o Smoke From The Chimney, album che
resuscita alcune registrazioni casalinghe di Tony Joe White (scomparso nel
2018), perché sono due operazioni tra loro molto diverse, ma ugualmente sentite,
e in fondo utili a continuare ad amare questi due importanti chitarristi dediti
a due tipi di blues molto differenti tra loro.
L’operazione che riguarda Gary
Moore è di puro archivio, per esempio, perché probabilmente l’autore mai
avrebbe pensato di pubblicare questi brani assieme e in quest’ordine. Sono
delle “outtakes” uscite dalle tante sessioni in stile blues che hanno
caratterizzato la seconda parte della sua carriera, a partire dal grande
successo di Still Got The Blues del 1990. 4 brani originali e 4 cover che
consocerete sicuramente già se siete dei frequentatori abituali del genere,
come la celeberrima I'm Tore Down di Freddie King che apre le danze, Steppin'
Out di Memphis Slim e l’immancabile omaggio a Elmore James (qui riprende una
già più rara Done Somebody Wrong) e a BB King (How Blue Can You Get). Nulla che
cambi di una virgola l’eredità artistica lasciata da questo hard-rocker
irlandese dal cuor gentile e particolarmente amante dei blues lenti e romantici,
ma in ogni caso materiale più che meritevole di una pubblicazione ufficiale.
Diversa invece l’operazione che
ha riguardato Tony Joe White, visto che non di inediti di studio si tratta, ma
di demo ritrovati dal figlio e saggiamente affidati al re della retro-mania
rock Dan Auerbach (Black Keys), che con entusiasmo ha risistemato le
registrazioni aggiungendoci parti completamente nuove registrate a Nashville da
Gene Chrisman, Bobby Wood, Dave Roe e addirittura Marcus King alla chitarra.
Il risultato è davvero riuscito,
con anche momenti davvero importanti come la lunga storia di Bubba Jones
che entra di diritto nel novero delle sue canzoni migliori, perché poi le
registrazioni vedono un White nel suo momento più espressivo, e la
post-produzione di Auerbach segue un gusto che comunque non si allontana dalle ultime prove dell’autore, che
aveva già da tempo abbandonato il suono un po’ addomesticato delle sue prove a
cavallo degli anni 80 e 90, per tornare ad un approccio più sporco e “fangoso”
al suo swamp-blues.
La riflessione non è tanto dunque
sulla bontà del materiale pubblicato, quanto sulla paternità, perché se nel
caso di un semplice recupero di archivio come quello di Gary Moore semmai il
dubbio resta solo se poi l’autore avesse tenuto nel cassetto le registrazioni
ritenendole non all’altezza del materiale poi effettivamente pubblicato (sinceramente
mi paiono più o meno sullo stesso livello), nel caso di White ci troviamo
davanti ad un prodotto la cui titolarità andrebbe condivisa con Auerbach. Ma
forse sono questioni di poco conto, anche perché il pensiero va a certi danni
fatti con le post-produzioni operate sul materiale di Jimi Hendrix nel corso
degli anni e non resta che ringraziare Auerbach di aver giocato a carte
scoperte con grande qualità, non cercando di venderci il disco come un lost-record
originale, ma per quello che è, un puzzle realizzato con alcune vecchie tessere
e altre nuovissime a coprire i buchi. E vogliamo credere anche il buon Tony Joe
avrebbe sicuramente apprezzato.
Nicola Gervasini
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