giovedì 30 settembre 2021

J SINTONI

 


J. Sintoni

Backroads

(Go Country, 2021)

File Under: Going up the Country

Di chitarristi blues che finiscono ad abbracciare il mondo della cosiddetta “americana” ne abbiamo visti tanti, anche in Italia (penso a Paolo Bonfanti, per dirne uno tra i tanti), e non fa eccezione anche il romagnolo J. Sintoni. Di fatto il suo nuovo album Backroads, chiarificatore sul contenuto fin da titolo e copertina, completa il passaggio già iniziato dal precedente Relief del 2017, dove la collaborazione ormai continuativa con Grayson Capps si faceva sentire parecchio (e complice anche la produzione dell’esperta Trina Shoemaker). Ma qui il salto verso una visione musicale che potrebbe avvicinarlo quasi al Dave Alvin più innamorato della tradizione, si completa, e ormai il suono è davvero lontano da quello del suo album Better Man del 2012, immerso com’era nella rigida grammatica del blues elettrico.

L’ossatura delle canzoni ruota comunque ancora intorno alle sue chitarre, sebbene lui sia sempre meno portato all’esibizione di assoli, e ad una sezione ritmica che lo vede impegnato anche al basso, in aggiunta alla batteria di Angelica Comandini. Il disco però si avvale anche di una serie di prestigiosi interventi che arrivano sia dalla scena nostrana (l’armonica di Marco Pandolfi, il violino di Elisa Semprini, il banjo di Thomas Guiducci e il piano di Gianluca Morelli), sia da qualche amico straniero come il da noi molto seguito Buford Pope, l’ex Blue Mountain Cary Hudson, Corky Hughes., Katrina Miller e lo svedese Rickard Alerstedt con i suoi importanti interventi con la Pedal Steel Guitar.

Ma se le connessioni del periodo di lockdown hanno permesso di riunire una squadra di primo livello, non sfugge quanto il disco sia davvero un encomiabile sforzo solista di Sintoni, che canta con anche più convinzione (e, detto nel senso positivo del termine, anche con più “mestiere” di un tempo), e si è evidentemente concentrato nello scrivere dieci brani più che validi che racchiudessero un po’ tutte le anime di quella musica americana che tanto lo influenza. E così se Hope sa di puro country-rock d’annata, When I Go Home lo riporta sui già esplorati territori di un gospel-blues alla Capps, ma già The Lighthouse, brano lento e intenso, fa capire quanto anche abbia velleità da autore puro. Le influenze di country music restano comunque le più evidenti (Let’s Try To Get Lost, Country AF), anche se il finale di Take This Song ricorda più le ballate West-Coast anni settanta alla Jim Croce, stile che tra l’altro si adatta ancor meglio alla sua voce.

Una volta chiesero al cantante afroamericano Charley Pride (scomparso pochi mesi fa per il Covid-19) come si fosse sentito ad essere il primo artista “di colore” ammesso al Grand Ole Opry di Nashville (era il 1967), e lui rispose che il Country si era evoluto talmente tanto che era ormai diventato una stanza abbastanza larga per farci stare tutti. Anche in Italia ci stiamo cominciando ad entrare con sempre più consapevolezza e rispetto, e anche Backroads si conquista il suo spazio in quella grande stanza.

Nicola Gervasini

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