lunedì 24 marzo 2025

Benjamin Booker

 

Benjamin Booker  -  LOWER

2025 - Fire Next Time Records

 

Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album e nuovi artisti da mettere alla prova, che alla fine si rischia di dimenticarsi un poco di quelli che già qualcosa lo avevano dimostrato. E’ il caso di Benjamin Booker, uno che con i due primi album (l’omonimo del 2014 e Witness del 2017) aveva portato una ventata di freschezza nella black music, con un suo personale mix di blues, rock e atteggiamento indie che aveva destato interesse e la sponsorship di Jack White. Anche dal vivo Booker fu di scena in parecchi festival in quegli anni, rubando spesso la scena a nomi più blasonati. Sono passati 8 anni e di lui quasi ci si stava dimenticando, ma questo LOWER (scritto tutto maiuscolo come anche i titoli delle canzoni) ha tutta l’aria di essere uno di quei lunghi parti artistici che lascerà più il segno.

La mossa a sorpresa è quella di affidarsi al produttore Kenny Segal, guru del mondo hip-hop che ha portato in dote un approccio completamente diverso, non so se definirlo moderno visto che poi il risultato, per quanto sperimentale, non è affatto nuovo. L’iniziale BLACK OPPS rende subito chiaro il concetto, con il suo riff hard-blues sommerso da voci filtrate e tastiere, o nell’ipnosi elettronica subito successiva di LWA IN THE TRAILER PARK. La tendenza è fare un gran mix di tante ispirazioni, persino quelle più “rootsy” che animano le chitarre di POMPEII STATUES, mentre SLOW DANCE IN A GAY BAR tiene fede al titolo con un suadentissimo dream-pop da struscio sulla pista della discoteca.

Ma la caratteristica da non dimenticare è anche quella dei testi fortemente polemici su società e politica americana, con lo zenith raggiunto in REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC, brano decisamente sperimentale che sbertuccia una nota avvocata suprematista e nemica dichiarata della black-community, e se non capite il senso del titolo, provate a inserirlo nella ricerca di una qualsiasi sito pornografico e vi sarà tutta chiara l’ironia.

Il disco intrattiene bene, anche se poi a lungo andare, svelate le nuove carte, il gioco si fa più ripetitivo, ma si fanno ancora notare la quasi jazzy SAME KIND OF LONELY con il suo suggestivo video e i tanti samples usati per la base, e la finale HOPE FOR THE NIGHT TIME, mentre SHOW AND TELL si segnala come l’unico brano in continuità col suo passato anche nella produzione più acustica e tradizionale.

Quello che però piace del disco è che le atmosfere apparentemente glaciali create da Segal ben si sposano con i toni per nulla accomodanti di uno dei dischi più feroci dal punto di vista della lotta e orgoglio razziale che si sia sentito negli ultimi anni, con semplici slogan di rabbia e rivolta (SPEAKING WITH THE DEAD) che riportano ad un clima degno dei più riottosi anni 60. Un buon segno in un’era in cui da più parti si sottolinea quanto la musica abbia perso ornai totalmente la propria forza rivoluzionaria e la propria influenza sulla società. Non che il disco di Booker possa cambiare qualcosa dei tempi bui in cui è stato concepito, ma probabilmente il tentativo di fare un nuovo There’s a Riot Going On di Sly & the Family Stone per club, ad uso e consumo dei disc jockey, è perlomeno encomiabile.

NICOLA GERVASINI

VOTO: 7,5

mercoledì 19 marzo 2025

Lilly Hiatt

 

Lilly Hiatt

Forever

(New West, 2025)

File Under: My House is Very Beautiful at Night

L’anno scorso ha compiuto 40 anni Lilly Hiatt, e, in puro stile no-look/no-make-up alla Lucinda Williams, non fa nulla per nasconderli anche nelle foto incluse nel nuovo album Forever, il sesto di inediti di una carriera iniziata discograficamente nel 2012. Il padre John si è sempre tenuto un po’ disparte nei suoi dischi, quasi a non voler sembrare ingombrante, ma è evidente che l’evoluzione artistica della figlia la stia portando sempre più sui suoi territori. Significativo poi che la sua voce faccia capolino in un amorevole e paterno messaggio vocale al telefono posto nel finale della conclusiva Thought, un brano sui bei tempi andati della High School.

D’altronde Forever è un disco sull’essere famiglia, quella che lei, dopo anni di difficile recupero dall’alcolismo, è riuscita costruire con il marito (e qui produttore e chitarrista) Coley Hinson, che ha allestito uno studio casalingo per registrare 29 minuti di belle canzoni che parlano d’amore (Forever), di uomini a cui appoggiarsi (Man) e in generale di una nuova dimensione casalinga (la bella e suadente Evelyn’s House).

E’ un disco sul recupero di una sfera personale, e sul combattere e vincere i propri fantasmi personali (Ghost Ship), molti solo evocati o accennati ma segreti, altri più noti (la madre di Lilly si è suicidata quando lei aveva solo un anno, e già nel buon album Walking Proof del 2000 aveva raccontato delle sue dipendenze). Per questo il tono, sebbene raccontato tramite un sound di country molto elettrico (nella title-track vengono in mente le chitarre in libertà spesso usate da papà John), è abbastanza rilassata e risolta, e già Hidden Day in apertura avverte sul fatto che in questo caso andrà in onda un racconto diverso da quello a cui ci aveva abituati.

Ci sarebbe quasi da pensare un giorno ad uno speciale sui dischi che raccontano l’approdo in un porto sicuro e tranquillo da parte degli artisti dalla vita più disordinata (penso ad esempio al Lou Reed di My House in The Blue Mask), quasi un sottogenere narrativo che spesso viene avvertito come poco intrigante dal pubblico.  “Chi guarderebbe un film come questo dopo uno spettacolo rock n roll?” canta non a caso Lilly in Kwik-E-Mart quasi interrogandosi sul “who cares’” del suo uomo e della sua vita coniugale. Domanda lecita a cui rispondiamo “a noi”, che amiamo comunque le belle canzoni finemente scritte e ben suonate, anche da una artista che forse non ha poi fatto il grande salto di crescita di personalità che possa portarla in prima fila nel vasto mondo della canzone americana, ma che da qualche anno ha trovato perlomeno un suo filone narrativo e espressivo che merita attenzione.

Nicola Gervasini

mercoledì 5 marzo 2025

SAY ZUZU

 

Say Zuzu

Bull

(Strolling Bones Records, 1998/2024)

File Under: Try One More Tme

Se ragionassimo con una logica commerciale, per non dire capitalistica, per cui una offerta sul mercato la si ripropone solo se ha avuto un ritorno economico soddisfacente e replicabile, dovremmo pensare che la ristampa dell’album Every Mile dei Say Zuzu, che vi presentammo poco più di un anno fa, abbia avuto vendite più che incoraggianti. Non disponendo di questi dati, possiamo però anche pensare che il fatto che la Strolling Bones Records di Athens abbia deciso di proseguire con l’operazione, proponendo il precedente disco del 1998 Bull, sia anche frutto di una passione, prima ancora che di mero calcolo economico. D’altronde per capire il loro spirito, basta guadare il sito della label per scoprire che ha in catalogo nomi alquanto oscuri della scena roots, in cui gente a noi ben nota, ma certo non “di primo grido”, come Jon Dee Graham, i Chickasaw Mudd Puppies o Randall Bramlett, giocano il ruolo di nomi di punta.

 

Soprattutto perché poi la cosiddetta “deluxe edition” è una semplice ristampa, arricchita in questo caso con tre inediti, segno che poi gli stessi Say Zuzu ai tempi non si preoccuparono poi molto di lasciare materiale nel cassetto per future operazioni discografiche. Intanto ci dà, comunque, l’occasione di riascoltare (o a voi che non l’avete preso in considerazione 26 anni fa, di riscoprire) un disco che rappresentò per la band la raggiunta maturità. Non aveva forse i pezzi potenti dei precedenti Highway Signs & Driving Songs (1995) e Take These Turns (1997), che restano i primi due titoli che consiglierei della band, ma era sicuramente il disco meglio prodotto del loro catalogo, forte anche di una band che si era ormai ben rodata nei live, e aveva trovato anche in studio il modo per smussare certe spigolature e ingenuità dei primi album. Bull in un certo senso poteva essere la loro occasione di uscire dalla nicchia con pezzi forti come Fredericksburg e Pennsylvania, ma arrivò purtroppo quando l’onda commercialmente positiva dell’Americana stava entrando nella sua fase calante. E paradossalmente She Was The Best, uno dei tre inediti, avrebbe potuto avere qualche chance se si ricorda il successo ottenuto dai Sister Hazel con brani molto simili, e viene da pensare sia stata esclusa ai tempi forse proprio perché un po’ fuori dalle loro solite coordinate

 

La formula comunque rimaneva la stessa, potremmo definirla “Uncle Tupelo-Like” (e la presenza di Moonshiner parla chiaro in tal senso), sia nel suono tutto chitarre, sia nella divisione di compiti tra i due leader Cliff Murphy e Jon Nolan, ma è ovvio che oggi brani come Hank o Wasting Time possono conquistare solo chi seguiva la scena già ai tempi. In ogni caso anche gli altri due inediti valgono la pena, più che una ordinaria Didn’t Know, la bella Singing Bridges con il suo valido gioco di chitarre acustiche. Non tantissimo magari per chi deve decidere se rinnovare la propria edizione già acquistata nel 1998, un bel tesoro per chi parte da zero.

 

Nicola Gervasini

sabato 1 marzo 2025

HUMPTY DUMPTY

 

Humpty Dumpty – Et Cetera

Humpty Dumpty, 2024

 

Suscitando il consueto poco clamore, più per sua scelta artistica che per effettivi meriti, a fine 2024 è uscito Et Cetera, il nuovo album di Humpty Dumpty, la principale creatura artistica di Alessandro Calzavara (non è l’unica, nel 2022 vi avevamo presentato ad esempio il progetto a nome Dana Plato), figura storica della scena indipendente siciliana fin dagli esordi con i Maisie.

Libero di dare sfogo alle sua svariate passioni musicali grazie ad una fiera autoproduzione, Humpty Dumpty si prende anche la libertà di scegliere di volta in volta la lingua di riferimento, per cui per il nuovo album torna all’italiano, come già l’apprezzato La Vita Odia La Vita del 2019, compresa la conferma di Giulia Merlino ai testi, stavolta però in alternanza a quelli di una fantomatica Florita Campos (in realtà il piacentino Andrea Fornasari). Per questo album Calzavara fa tutto da solo, tranne farsi aiutare dal basso pulsante, e direi determinante, di Giovanni Mastrangelo (provate solo a concentrarvi sulla complessa bass-line di Cosa sono questi versi? tra le tante), per tessere un quadro di synth-pop italiano decisamente figlio della new wave nostrana dei primi anni 80 nel definire atmosfere dark, quasi berlinesi direi (città che viene di fatto citata anche in uno dei pezzi forti del disco, La Mort Peut Briller, forte anche di un recitato finale di Giuseppina Borghese, scrittrice siciliana). Tastiere e drum-machines si intersecano nei brani imponendo spesso ritmi quasi dance, a cui fanno da contraltare la vocalità oscura e declamatoria di Humpty Dumpty e i tanti interventi delle chitarre, particolarmente evidenti ad esempio in In fila Per Ore o nei riff di Inconsistenti.

Cos’altro Dire? apre il disco con un testo un po’ disilluso, una malinconia che pervade tutto il disco più come voluta “estetica del nero” che per un reale pessimismo di fondo (d’altronde, come si recita in un brano, “Anche la morte può luccicare”), e si conclude con la poetica La Tazza Preferita, in questo caso chiusa da un recitato di Giada Lottini che direi che illustra perfettamente lo spleen dell’album (“E il discepolo chiese: Maestro, non ci insegni il non attaccamento? Perché hai una tazza preferita? E il maestro rispose Sì, è la mia tazza preferita, ma io la vedo già rotta”). In mezzo, tra le altre, si fanno notare Vernissage, in cui tra le righe si legge una riflessione sulle modalità di apparire e promuoversi degli artisti moderni, o l’ipnotica Calle Bucarelli, in cui Florita Campos gioca con la propria misteriosa identità all’interno di un immaginario movimento letterario chiamato “surrealvisceralismo” in risposta al “realismo viscerale” dello scrittore Roberto Bolaño.

Disco molto omogeneo e riuscito direi, con Humpty Dumpty capace ormai di far valere una esperienza più che trentennale nelle produzioni casalinghe.

Nicola Gervasini

Voto: 7.5

venerdì 28 febbraio 2025

KIM DEAL

 

Kim Deal - Nobody Loves You More

4AD

Proprio su queste pagine ho recentemente parlato della pesante eredità storica che impedisce di ascoltare i dischi attuali dei Pixies senza il pregiudizio che tanto nulla potrà mai essere come un tempo. Era probabilmente la pura più grande della loro bassista Kim Deal, curiosamente disponibile ad una reunion durata quasi dieci anni dal 2004 al 2013, ma con l’implicito e tacito patto che rimanesse solo una rimpatriata per i concerti e non per nuove canzoni. Per quelle la Deal aveva la sua personale creatura da seguire, i Breeders , e così quando Frank Black volle registrare quello che sarà Indie Cindy, lei lasciò la nave. Non che rifiutasse la nostalgia, visto che All Never nel 2018 era di fatto una reunion dei Breeders originali del 1993, ma è ovvio che il suo interesse fosse ancora quello di non fermarsi, Arriva quindi a sorpresa, ma neanche troppo, il suo vero e proprio esordio solista, questo Nobody Loves You More, strano oggetto fin dalla copertina, che la vede esibirsi su una zattera alla deriva giusto per ribadire che lei vuole fare le cose di testa sua, anche a costo di farle da sola.

Disco solista per modo di dire, perché poi i Breeders più recenti suonano in vari pezzi, rendendo evidente come l’album, registrato anche da Steve Albini finché è rimasto in vita, sia una sorta di patchwork di diverse sessions avute dal 2011 ad oggi. Che è anche la ragione perché più che di un disco unitario, pare una raccolta di “Odds and Sods” (per dirla come gli Who), cioè progetti vari a cui è impossibile dare una cornice unitaria , ma che messi assieme così riescono a trovare la propria collocazione in una tavolozza davvero variopinta. E’ la varietà e il coraggio anche di affrontare stili certo non abituali per lei, sfociando spesso nel mondo cella canzone d’autore come nella title-track infarcita di fiati d’archi, che rende questo Nobody Loves You More un oggetto intrigante e forse il disco migliore che ci si poteva aspettare da una artista in una fase cruciale della sua carriera.

Da episodi di pop elegante (Summerland Key) all’avanguardia rock di Big Ben Beat, sembra che la Deal abbia voluto misurarsi con sfide diverse per dimostrare prima di tutto a sé stessa di essere una artista non riconducibile ad un cliché. Il risultato convince, anche se ovviamente resta la sensazione di saltare un po’ di palo in frasca, tra echi del suo stile abituale come Crystal Breath e di pop-rock da radio airplay come Coast, fino a brani più intimi e oscuri come Are You Mine? e Wish I Was. Potrebbe trattarsi di una prova generale lungamente pensata per una nuova ripartenza, che forse metterà più a fuoco tanti stimoli. Intanto godiamoci un disco comunque persino sofisticato e ammiccante nel suo venire in contro un po’ a tutti i gusti, con la sensazione che da lei potremmo avvero aspettarci ancora qualche sorpresa.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

giovedì 27 febbraio 2025

Father John Misty

 Father John Misty

Mahashmashana

(Sub Pop/Bella Union, 2024)

File Under: All Included


Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque, le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già

consumate, e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel suo ormai abituale e forse

definitivo alias Father John Misty quando ormai quando ormai già sembra essere stato detto tutto.

Riassumendo, se non conoscete il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che vi

potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento, è talvolta geniale, ma è

sostanzialmente pretenzioso”.

Facciamo un passo indietro allora. 15 anni fa proprio su queste pagine scrivevo del disco Year in the

Kingdom, ottava uscita in pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman

alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille

buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non avevo idea ai tempi

che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico,

ma da scarno homemade freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione

moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi show. Un percorso in crescendo tra

album belli e complessi, in cui la forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti

altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato successivamente agli anni 70. Uno sforzo

produttivo enorme che ovviamente gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo

affiancano Drew Erikson e Jonathan Wilson).

Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della sua arte. Bene perché conosco pochi artisti

moderni in grado di maneggiare con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica, melodie

pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco pochi artisti moderni in grado di fare un

grosso pasticcio come la detestabile Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere,

arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova la nostra pazienza. Prendere o lasciare,

negli 8 lunghi brani che compongono questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She Cleans Up ad

esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo, accettando che anche un brano che poteva

tranquillamente vivere solo di voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini e sax

suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i 9 minuti philspectoriani della title-track è un colpo d’autore,

ma anche una evidente spacconata.

E che dire della magnificenza della quasi disco-dance I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete

trovarci tutto, la yacht music, I sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees volendo. Il finale di Summer’s

Gone sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui pare di vedere il suo sorrisetto

sardonico mentre pensa “voglio vedere tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare

un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma, quest’uomo è seriamente

bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche un po’ come delle serissime prese in giro.

Nicola Gervasini

venerdì 21 febbraio 2025

CURE

 

The Cure

4:13 Dream

 

Scottato dal flop di accoglienza di The Cure del 2004, Robert Smith recupera in squadra il vecchio chitarrista Porl Thompson e con lui rimette mano a vecchie frattaglie lasciate nel cassetto durante gli anni ottanta, aggiungendo tonnellate di nuovo materiale con il chiaro intento di recuperare il tipico Cure-sound. 4:13 Dream nelle sue intenzioni doveva essere un doppio album, con una “pop-side” e una “dark-side”, insomma l’ideale capitolo secondo di Wish come impalcatura, ma alla fine dei 33 brani registrati si optò per pubblicarne solo 13 della prima parte, lasciando poi aperta la strada ad un capitolo due più lento e sognante. Seguito che non vedrà mai luce purtroppo, perché l’album andò anche peggio del suo predecessore, primo loro progetto senza certificazioni di vendita dai tempi carbonari e underground di Pornography. Eppure la lunga iniziale Underneath the Stars faceva ben sperare, ma tra le 12 restanti tracce, tutte in chiave pop alla loro maniera, non c’era nessuna nuova Friday I’m In Love a salvare la baracca, neppure brani come The Only One o The Perfect Boy, che parevano nati col chiaro intento di cercare una nuova hit. Sleep When I’m Dead fu pubblicata come singolo per risvegliare la vecchia fanbase, ma finì solo a rendere evidente come mai fu scartata già ai tempi di The Head On The Door. Il problema  di 4:13 Dream è che non ha nessun coraggio, neppure quello di essere veramente brutto (di fatto lo si ascolta senza troppi malori), ma resta solo lo specchio di una band rimasta senza idee che, con piena evidenza, necessitava di una pausa.

Nicola Gervasini

mercoledì 22 gennaio 2025

The Wild Feathers

 

The Wild Feathers
Sirens
[New West 2024]

 Sulla rete: thewildfeathers.com

 File Under: yacht country (rock)


di Nicola Gervasini (29/10/2024)

Wild Feathers vengono da Nashville, vanno verso i quindici anni di carriera, e Sirens è il loro quinto album. E credo che siano una di quelle band che riaprono una antica, ma sempre viva, spaccatura nelle preferenze delle redazioni delle riviste musicali, divise tra chi cerca anche a Nashville la polvere, la musica fuorilegge, la rottura degli schemi, e chi in quella città, così rigidamente severa sui propri canoni estetici, si inserisce nella tradizione senza caderne troppo nelle trappole della produzione in serie. Ad esempio, il collega Pie Cantoni nel 2018 su queste pagine stroncava senza mezzi termini il loro terzo album Greetings from the Neon Frontier, chiudendo la sua disanima con un “Sporcatevi, incattivitevi, incazzatevi, fate un po' di vita ai limiti e poi ne riparliamo.” che rendeva al meglio questa linea di confine estetico.

I Wild Feathers sono effettivamente uno strano caso di band che con tutta evidenza pescano un po’ ovunque, da Tom Petty ai Jayhawks, dagli Eagles a Keith Urban, persino un po’ in quella roots rock sporcata di new wave alla War on Drugs (sentite Sanctuary), e sicuramente l’originalità non è la freccia migliore del loro arco. Ma di strada un po’ ne hanno fatta, di polvere ne hanno presa, qualche incazzatura (si ascolti Pretending) deve essere arrivata, perché Sirens è quel passo in avanti che ci porta a riconsiderarli non più uno specchio per le allodole per quelle giovani generazioni che, istigate da Taylor Swift o dalla Beyoncè in versione cow-girl, provano ad affacciarsi su un mondo musicale che sa di vecchio per sua stessa auto-definizione, ma una band che va a cercare quello spazio occupato (spesso molto positivamente) da band come i Dawes, per esempio, in cui si cerca un equilibrio difficile tra autorialità e mainstream. E così andate subito al fulcro del disco, una Slow Down che è puro radio-sound da easy-rock americano (a me ricorda per certi versi Missing You di John Waite come tipo di brano), e subito dopo però un episodio come Comedown che sì, il buon vecchio Petty, maestro d‘arte del fare cose elaborate facendole sembrare comprensibili anche al pubblico più distratto e meno esigente, avrebbe apprezzato.

Per contro, sebbene più della metà delle canzoni funzionino benissimo se ancora avete il viaggio in macchina come prova d’ascolto, resta poco coraggio nella parte strumentale, la band pare sempre un po’ impagliata e impettita nel suonare anche i brani più coinvolgenti, e qui ad esempio un confronto con la carica emotiva dei i JJ Grey & Mofro del recente Olustee sarebbe impietoso. In ogni caso Sirens, prodotto peraltro da Shooter Jennings, è un buon disco, che non vi farà strappare le mutande, ma alzare il volume ogni tanto sicuramente. Potremmo quasi definirlo la pietra fondatrice di una nuova forma di "Yacht Rock" nashvilliano (nota curiosa: a Nashville c’è uno dei più grandi Yacht Club degli Stati Uniti), termine che in alcune redazioni musicali fa venire orticarie e svariate nausee, ma anche qualche bel ricordo di disimpegnato buon country-rock da frequenze FM.

lunedì 20 gennaio 2025

De Francesco e Paolo Rig8

 

De Francesco – Cupio Invenire

Paolo Rig8 – Compost

Snowdonia - 2024

 

 

Sempre attiva nel coprire talenti, la Snowdonia ha presentato in questo finale del 2024 due artisti molto interessanti. Il primo è il bresciano De Francesco, già noto con il nickname MARIX, con cui ha inciso nel decennio scorso tre album improntati ad uno stile da cantautore indie. Ora usa il suo vero cognome (lui si chiama Mario) per un progetto molto interessante, composto da 10 canzoni ispirate da altrettanti romanzi più o meno celebri, un omaggio alle letture che lo hanno forgiato in tutti questi anni. Troviamo così titoli importanti come Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij ad ispirare l’amarissimo brano Rodja, Fight Club di Chuck Palahniuk dare vita ad una cinica canzone dallo stesso titolo (l’incipit poi direi che dice molto anche sullo spirito ironicamente pessimista dei suoi testi: “nell’ottica comune io dovrei sentirmi appagato perché il design svedese del mio appartamento è cool, nel mio armadio pax ho sei camicie tutte uguali”), o anche Dissipatio H.G. di Guido Morselli (altra fase indicativa anche nel brano omonimo: “ma non c’è più nessuno in questo giardino che dia un senso al tempo, su questa panchina mi resta l’attesa e in tasca le tue Gauloise”). Ma anche titoli meno celebri come Creatività di Philippe Petit (che ispira Sul Filo), o narrativa italiana più recente come Nella vasca del Führer di Serena Dandini o La signorina Crovato di Luciana Boccardi, e, forse anche un po’ provocatoriamente, anche un brano finale (Galline) ispirato da un “Uomo Qualunque di Facebook” promosso a letteratura moderna. Cupio Invenire (titolo traducibile come “Desidero scoprire”) è un bel disco cantautoriale, curato anche dal punto di vista degli arrangiamenti e del suono, con archi e fiati a contorno, come ad esempio il sax di Dario Acerboni in Acqua ai fiori (il cui riferimento letterario è Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin).

Ancora più dissacrante fin dalla copertina è Compost, settimo album di Paolo Rig8, disco che ha avuto un lungo iter produttivo per definire in dieci brani il punto della situazione di un neocinquantenne alle prese con un decadimento sia fisico, che motivazionale e morale. Il junk food della copertina (realizzata palesemente con l’intelligenza artificiale per aumentare il senso di grottesco della nostra modernità) rappresenta solo una delle tante tossine (descritte con precisione in Respiro e nella title-track) che l’esistenza ci propina per appesantirci nella seconda fase della nostra vita. Il tema è innanzitutto quello dell’artista indipendente che decide dii smettere di venire a compromessi, e se in Solo Se Mi Va decide di non partecipare alla questua di recensioni in cambio di una finta visibilità (“La medicina per l'autostima, in mezzo a tanti nomi, è comprarsi le recensioni che non legge nessuno, però i pareri son buoni, preferisco cantare per te che suonare per tre” canta), in Questa è l’Ultima ironizza sui concerti fatti in situazioni del tutto inadatte pur di poter avere una data da qualche parte (“Questa è l'ultima, lo sai, dopo mettono il D.J”). La reazione a tutto ciò può essere violenta (Spacca Tutto, che sembra un testo del Finardi della prima ora), o rassegnata, come quella dei pendolari raccontata in Binari. Il finale è ancora più amaro, con una Ancora in Tempo che descrive bene quella sensazione del cinquantenne odierno di essere troppo vecchio per poter ancora cambiare le cose, e troppo giovane per mollare davvero tutto (Too Old to Rock and Roll, Too Young to Die cantavano i Jethro Tull sullo stesso argomento), e una Ho Fatto un Dio che si porta avanti nel rispondersi se poi la religione possa aiutare o no in questi casi. Toni dark e atmosfere da new wave italiana anni ‘80 sono il bagaglio musicale di un disco completamente autoprodotto e suonato in veste di polistrumentista.

NICOLA GERVASINI

mercoledì 15 gennaio 2025

Bright Eyes

 

Bright Eyes
Five Dice, All Threes
[Dead Oceans/ Goodfellas 2024]

 Sulla rete: thisisbrighteyes.com

 File Under: di ritorni e riconferme


di Nicola Gervasini (01/10/2024)

Nella mia mente esiste un filo diretto e conduttore fra tre nomi come Conor Oberst (Bright Eyes), Colin Meloy (Decemberists) e Will Sheff (Okkervil River), artisti in verità con pochi contatti reali tra loro. Ma oltre alla piena contemporaneità della loro storia artistica, quello che ai miei occhi li accomuna è lo stesso medesimo approccio che hanno avuto verso il folk, o “indie-folk” si diceva ai tempi dei loro esordi di fine anni ‘90, visto che poi le loro rispettive band negli anni Zero hanno pubblicato i migliori dischi di un genere tutto loro in cui si univano alla perfezione tradizione e autorialità stramba e non categorizzabile.

Nel 2024 possiamo dire che Will Sheff dei tre è stato sicuramente il più continuo e coerente rispetto al suo credo musicale, Meloy invece, dopo aver sperimentato anche parecchio, si è poi trincerato coi suoi Decemberists in ua folk-rock più rassicurante e a colpo sicuro, con cui ha comunque pubblicato dischi più che notevoli (vedi il recente As It Ever Was, So It Will Be Again per esempio ). Conor Oberst, che forse dei tre era considerato l’enfant prodige, è quello che si è perso un po’, quello che non ha saputo tenere ben salde le briglie della propria straripante creatività. E paradossalmente quello che ha sacrificato di più la propria band, i Bright Eyes, a nome di una carriera solista, interessante quanto confusa, che di fatto non è mai decollata a dovere. E il fatto che molti suoi titoli solisti siano stati decisamente meglio dei due album usciti a nome Bright Eyes dal 2008 ad oggi (The People's Key nel 2011 e Down in the Weeds, Where the World Once Was 2020) fa capire come mai questo Five Dice, All Threes sia già stato ovunque salutato come una sorpresa, se non proprio addirittura un “ritorno”, nonostante siano passati solo quattro anni dal suo predecessore.

La ragione la potete capire anche solo al primo ascolto: Oberst qui si è concentrato a scrivere grandi canzoni, ben costruite e con testi ben studiati, e le ha prodotte ritornando a mettere il folk al centro, ma senza disdegnare tutto quanto ha sperimentato in questi anni, usato finalmente con criterio e senso della misura. Il risultato è che il disco è finalmente il mai arrivato seguito di Cassadaga, l’album con cui aveva abbracciato anche più che idealmente l’elaborato folk dei colleghi Meloy e Sheff, riuscendo peraltro benissimo nell’impresa.

La band, se così si può chiamare, è un trio di factotum che oltre a lui vede il grande guru della scena musical di Omaha Mike Mogis (ha lo studio di produzione più importante della città, e dalle sue produzioni sono partiti molti artisti della sua zona) e il fido pianista Nate Walcott. La lista degli ospiti e session-men è comunque lunga, ma ovviamente spiccano i contributi di Cat Power nella davvero splendida All Threes e Matt Berninger dei National in The Time I Have Left. Ma, a parte i credits colorati, il disco convince perché sa essere scanzonato (il toy-piano di Bas Jan Ader, una delle collaborazioni più convincenti con l’artista Alex Orange Drink, il fischio divertito di Bells and Whistles), riflessivo (Tiny Suicides pare quasi uno dei brani dei Pink Floyd più malinconici e acustici) o in vena di provare nuove soluzioni (il finale tex-mex dell’ottima El Capitan, questa si una canzone che Meloy gli ruberebbe volentieri).

Insomma, pur senza forse arrivare a giustificare la parola genio che qualcuno spese per Oberst agli inizi della sua carriera, Five Dice, All Threes ha tutta l’aria di essere quel punto fondamentale di recuperata affidabilità anche per il futuro.


lunedì 13 gennaio 2025

Amy Speace

 

Amy Speace
The American Dream
[Goldrush 2024]

 Sulla rete: amyspeace.com

 File Under: just a story from America


di Nicola Gervasini (04/11/2024)

Seguo Amy Speace con affetto e interesse dai tempi del suo terzo album The Killer in Me del 2009, e ho sempre pensato che proporla nelle nostre terre fosse una impresa alquanto titanica vista la poca familiarità che il pubblico italiano ha con il suo tipo di linguaggio. Anche nel suo campo, quello delle songwriters post-Lucinda Williams di questi anni 2000, è sempre stata un po’ ai margini, forse perché non ha il fascino del dark-country di una Mary Gauthier o la vena più melodica e immediata di una Kathleen Edwards, e anche la sua voce è bella, ma non ha particolarità che la rendano immediatamente riconoscibile. A sfavore di una popolarità rimasta infatti limitata agli Stati Uniti, gioca anche il fatto che la sua formazione di attrice shakespeariana la porta spesso a scrivere canzoni molto verbose e piene di riferimenti storici o letterari, il che rendeva album come How To Sleep In A Stormy Boat (2013) o Me And The Ghost Of Charlemagne (2019) affascinanti quanto anche un po’ troppo densi e monocorde.

La Speace è però un personaggio molto amato dall’ambiente statunitense, anche perché attiva dall’altra parte della barricata come articolista e critica musicale per testate a noi ben note come No Depression Magazine e American Songwriter Magazine, fino anche al New York Times. Per conoscerla, contrariamente alla regola di partire dall’inizio, vi potrei quindi consigliare di ascoltare The American Dream, suo ormai tredicesimo album dal 2002 ad oggi, perché se di una maturità ormai non ne aveva più bisogno, è forse il disco che meglio riesce a calibrare la sua penna avida di raccontare, e una produzione che resta sì sempre fatta in economia scegliendo la via del sound elettro-acustico guitar-oriented, ma puntuale e in grado di dare la giusta dinamicità all’album.

Finanziato con un ormai abituale crowdfunding e prodotto dall’esperto Neilson Hubbard, il disco raccoglie i collaboratori di lunga data come il chitarrista Doug Lancio e il mandolinista Joshua Britt, ed è una sorta di concept che racconta la storia americana attraverso i suoi ricordi di vita, con una title-track iniziale che racconta di lei a 7 anni nel 1975, spensierata ma già desiderosa di capire il mondo, mentre ascolta i commenti politici del padre. E così via con ricordi di compagni di scuola (Homecoming Queen, una sorta di Bobby Jean al femminile), matrimoni dolorosamente falliti (Where Did You Go), e prese di coscienza di quanto il voler stare fieramente fuori dal coro si paghi in solitudine (Glad I’m Gone).

E ancora i sogni da attrice e la vita a New York (In New York City) e la scoperta del folk (This February Day), fino al ritorno in provincia con Something Bout A Town per ritrovare sé stessa e concentrarsi sulla sua musica. Una storia tipicamente americana insomma, con la grande città che uccide il sogno americano dopo averlo promesso, e una provincia che lo mette definitivamente a dormire ripagando però in salute mentale. Non è la prima che ce la racconta questa novella, ma Amy Speace ha doti da storyteller davvero particolari e adatte al genere che vi invito a scoprire.

Benjamin Booker

  Benjamin Booker   -   LOWER 2025 - Fire Next Time Records   Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album...