sabato 30 agosto 2025

MATTHEW DUNN

 

Matthew Dunn

Love Raiders

Cosmic Range Records

 

Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo per il formato CD ci ha portato moltissimi album che duravano anche più di un’ora, senza essere per questo considerati doppi, oggi in era Streaming le durate medie si sono drasticamente ridotte, tanto da non capire più troppo la differenza tra album ed EP. E poi ci sono quelli che non ci badano affatto, come Matthew Dunn, artista canadese che fino a pochi anni fa si firmava mettendo un “DOC” tra nome e cognome (e sarebbe curioso sapere come mai ha deciso di abbandonare il soprannome), e che vanta ormai più di vent’anni di fiera carriera discografica indipendente.

Di lui si era sentito parlare soprattutto nel 2023 con l’album Fantastic Light, che si era guadagnato ottime recensioni, e che riuniva una serie di collaboratori che a sorpresa scompaiono in questo torrenziale Love Raiders, eccezion fatta per il Dinosaur Jr. J Mascis, che qui porta in dote la sua abituale elettricità nella rauca Tally Ho!. Suonato e co-prodotto con l’amico Asher Gould-Murtagh, l’album è un classico doppio da 22 canzoni, in cui i due buttano nel calderone influenze di ogni tipo. Dotato di una voce portata a giocare su tonalità alte, con qualche sofferta inflessione un po’ alla Jesse Malin, Dunn suona quasi tutto, giocando anche non poco con le tastiere e sintetizzatori di vecchia data (It’s Over), e comunque non perdendo le proprie radici da vero songwriter di scuola canadese (le trame acustiche di Flower Maiden, uno dei brani più significativi della raccolta, non dispiacerebbero neanche a Bruce Cockburn).

Ma l’artista ha puntato soprattutto sulla varietà, giocando con il rock sia alternativo che radiofonico, ponendo subito in seconda posizione di scaletta la lunga e acida cavalcata chitarristica alla Neil Young  di Algonquin, passando per qualche trama blues (Hideway), echi di jingle-jangle byrdsiani (Sad Masquerade), e giocando anche molto con un certo pop di Costelliana memoria (Forbidden Life). Insomma c’è tanto, inutile dire “a volte troppo”, visto che avendo spazio a volontà da riempire, si permette qualche passaggio strumentale un po’ fine a sé stesso (Rain Rain Rain, che era anche il titolo del suo penultimo album), dando la sensazione di aver approfittato dell’attenzione suscitata dal suo disco precedente per svuotare un po’ i cassetti di tante idee rimaste irrealizzate e accantonate nel tempo. Resta comunque un tour de force affascinante e neanche troppo stancante, grazie alla pluralità di toni e generi, anche se resta quella patina da produzione casalinga che forse penalizza un po’ il risultato finale.

Nicola Gervasini

lunedì 11 agosto 2025

Matteo Nativo

 Matteo Nativo

Orione

RadiciMusic Records

File Under: Blues per un matrimonio

Matteo Nativo è un virtuoso chitarrista toscano attivo da più di 30 anni, ma che curiosamente solo a 52 anni arriva a pubblicare il suo album d’esordio. Orione è raccolta di sette brani inediti, spesso scritti con la collaborazione di Michele Mingrone, e due cover di Tom Waits che in qualche modo targano fin da subito la sua proposta, basata su un impianto blues, ma con un approccio decisamente più cantautoriale. E oltretutto il suo stile chitarristico, basato spesso sulla tecnica del fingerpicking (si dice allievo di Leo Kottke e si sente), pare essere lontano dall’abituale mondo musicale di Waits. Le due cover sono in verità due traduzioni in italiano, operazione sempre rischiosa ma direi più che riuscita, sia quando le parole sono le sue (una ottima Clap Hands), sia quando invece la traduzione arriva da un'altra valida cantautrice toscana come Silvia Conti (che poi offre i cori in tre brani del disco). I brani inediti variano molto sui temi, partendo con toni più che personali raccontando prima la dolorosa separazione dalla moglie (Che Ora è?), ma successivamente anche una dedica alla stessa in occasione di una diagnosi di una malattia (Ovunque tu sarai), in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo nella storia del loro amore. Altrove si parla di guerra (Oradur), rinascite personali (Ultima stella del Mattino) e si piangono amici scomparsi (Orione), con toni da blues sofferto, ma con l’eccezione della scanzonata e divertente Fantasma, e del fugace amore con una improvvisata fan dopo un concerto di Un’altra Come Te. Suonato in trio con Fabrizio Morganti e Lorenzo Forti alla sezione ritmica e qualche ospite a corredo, il disco è prodotto con l’esperto Gianfilippo Boni.

Nicola Gervasini

martedì 5 agosto 2025

Piero Ciampi

 

Piero Ciampi

Siamo in Cattive Acque

(Squilibri, 2025)

File Under: Ritrovamenti

Non basterebbero dieci pagine per raccontare e descrivere l’opera di Piero Ciampi, se già non la conoscete, ma è ovvio che prima ancora di introdurvi a questa bellissima operazione discografica di Squlibri, vi rimando all’ascolto perlomeno dei suoi 4 album pubblicati tra il 1963 e 1976. Pochi, per un autore che in vita ha avuto tanti estimatori ma pochi successi (e spesso grazie ad interpretazioni altrui, soprattutto di vocalist femminili come, tra le altre, Gigliola Cinquetti, Carmen Villani o Dalida), ma il ritrovamento di un suo appunto per un ipotetico disco intitolato Siamo in Cattive Acque, ha portato a riunire in un doppio CD 21 versioni alternative di brani già noti, e ben 11 inediti assoluti. CD saggiamente divisi tra versioni comunque fatte e finite, e demo e abbozzi teoricamente non pubblicabili (definiti “Le Incompiute”), ma di sicuro valore storico. Più che altro perché molti brani come Sul Porto di Livorno o Confiteor tracciano una storica genesi di quello che sarà il bellissimo album Ho Scoperto che Esisto Anch’Io pubblicato da Nada nel 1973, interamente scritto per lei (già nei demo cantati da lui, come Sono Seconda, Ciampi parla al femminile infatti). La confezione ha uno splendido libretto dove ogni brano viene descritto minuziosamente, una ricerca curata da Enrico De Angelis davvero encomiabile. Piero Ciampi, morto in solitudine nel 1980, resta un autore non facile, la cui memoria è tenuta viva più dagli addetti ai lavori che da un pubblico che certo oggi faticherebbe ad apprezzare molte di queste canzoni, e forse per questo Siamo in Cattive Acque è  ancora più importante da scoprire.

Nicola Gervasini

giovedì 31 luglio 2025

TY SEGALL

 

Ty Segall – Possession

2025 – Drag City

Prima o poi la tentazione di fare un disco “normale” viene a tutti, anche ai più sregolati e imprevedibili artisti. E perché no in fondo, Picasso d’altronde sapeva benissimo dipingere in stile figurativo, e nel cinema persino un autore riconoscibilissimo come David Lynch ha fatto Una storia Vera, film bellissimo, ma che usciva dal suo percorso stilistico, e che probabilmente avrebbe potuto girare anche un altro regista. E così il genio e sregolatezza di Ty Segall, pur non smentendo la sua proverbiale tendenza ad una mole produttiva difficile da seguire con attenzione (Possession arriva dopo che nel 2024 aveva già prodotto due album), per una volta prova a buttare anima e talento in dieci brani che per qualcuno potrebbero sembrare addirittura (“che orrore!”) “mainstream”, o semplicemente ancora legati ad una vecchia idea di “classic rock” che ignora (ma non del tutto) la sua abituale verve da eroe indie.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, queste opere siano una sorta di risposta a qualche detrattore che avanza il sospetto che tanta sregolata originalità non sia altro che un modo per mascherare l’incapacità di fare le cose come le fanno tutti, e credo che Segall abbia registrato questi pezzi un po’ con questo pensiero, quasi anche a voler fieramente dimostrare che quello di rimanere un personaggio da undeground carbonaro, per appassionati di weird-folk, non è un condanna, quanto una sua precisa scelta. Quello che magari non si aspettava è che Possession sta paradossalmente piacendo a tutti, e che il fatto di aver fatto un album che può benissimo funzionare anche come musica da viaggio in macchina (secondo “orrore!”) non solo non gli sta facendo perdere l’affezionata fan-base, ma sta conquistando qualche adepto fino ad oggi scettico nei suoi confronti.

Possession di fatto è un bel disco, con chitarre e fiati in gran spolvero, ma soprattutto un largo uso di cori, il che fin dall’iniziale Shoplifter fa ricordare davvero le migliori opere di Todd Rundgren, sospese tra perizia tecnica da one-man band di studio, piglio da rocker, e melodie vocali molto elaborate e spesso decisamente radiofoniche e pop. Ci sono variazioni sul tema (gli archi di Buildings, l’aura da prog quasi alla Steven Wilson di Hotel), ma fondamentalmente Possession è un disco che, fin dalla title-track scritta dal collaboratore Matt Yoka, (bello anche il video), si fa apprezzare per avere dalla sua parte un pugno di buonissime canzoni, da Skirts of Heaven con le sue chitarre in evidenza, alle conclusive Alive e Another California Song, fino al primo singolo Fantastic Tomb. Sono certo che Segall tornerà a offrire produzioni fuori dagli schemi, ma anche questa sua versione “public-friendly” non ci dispiace affatto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 luglio 2025

Ivan Francesco Ballerini

 

 

Ivan Francesco Ballerini

La guerra è finita

RadiciMusic Records

File Under:  War is not the answer

 

Impossibile rimanere impassibili davanti a questi tempi di guerra nel mondo, soprattutto se si è un sensibile cantautore, ma le canzoni di La guerra è finita, quarto album di Ivan Francesco Ballerini sono nate anche prima degli scenari più noti nei nostri giorni, quasi a dire che la speranza di pace è qualcosa che non ha bisogno di una guerra per sentire il bisogno di esprimersi. Autore toscano di impostazione classicamente folk, Ballerini ha iniziato a pubblicare album solo dal 2019 con l’esordio di Cavallo Pazzo, e si presenta ora con quello che potremmo quasi definire un concept album, sebbene il filo conduttore che lega i brani sia il tema e non i protagonisti. Che sono il soldato che al fronte scrive all’amata della title-track (con la bella voce di Lisa Buralli a supporto), oppure la studentessa che spera di poter finire gli studi nonostante i bombardamenti (Tra Bombe e Distruzione). Altrove Ballerini si ispira alla letteratura (Linea d’Ombra ovviamente si rifà a Joseph Conrad, mentre Vestire di Parole ad un racconto di Primo Levi), o semplicemente parla di amore di coppia (Tra le dita e Perché Mai) o universale (Sulle Pietre del Mondo) come unica arma contro i conflitti dell’umanità. Chiude (così come apriva in un breve strumentale) il brano Il Mondo Aspetta Te, brano in cui un artigiano si mette al lavoro per ricostruire il tutto a guerra finita, un chiaro messaggio di speranza finale per un album che comunque non assume mai toni troppo cupi o pessimistici, nonostante il tema trattato. Nell’album suonano molti musicisti, con particolare peso della chitarra e degli arrangiamenti di Giancarlo Capo. In mezzo a tante voci bellicose in ogni parte dl globo, serve ancora che il folk faccia la parte di un grido che sia sempre ostinatamente per la pace.

Nicola Gervasini

 

martedì 15 luglio 2025

Lavinia Blackwall

 


 Lavinia Blackwall

The Making

(The Barne Society, 2025)

File Under: What She Did On Her Holidays

Nel fenomeno di rinascita e riscoperta del folk britannico negli anni 2000, gli scozzesi Trembling Bells hanno giocato un ruolo importante. Cinque album pubblicati tra il 2008 e il 2018, in cui hanno rimescolato le carte del genere, più un EP e un disco in collaborazione con Bonnie Prince Billy (The Marble Downs del 2012), che testimoniava proprio la stretta parentela tra l’indie-folk di questi decenni e la musica tradizionale di marca Fairport Convention e dintorni. Nel 2018 però la vocalist della band, Lavinia Blackwall, ha annunciato di lasciare la band, di fatto sciogliendola (ad oggi infatti la sigla pare aver chiuso i battenti), e varando così una carriera solista con l’album Muggington Lane End del 2020. Ci sono voluti cinque anni per avere The Making, il secondo album, anni difficili e dolorosi di ritirata riflessione e introspezione, grazie ai quali ha prodotto quello che pare proprio uno di quei dischi che cambiano le sorti di una carriera. La Blackwall, infatti, aiutata del produttore Marco Rea, ha lavorato per lungo tempo su 10 brani che assorbono come una spugna moltissime influenze e diverse sonorità, pur non abbandonando il proprio stile, che ovviamene le porta paragoni con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle.

E se l’iniziale Keep Me Away From The Dark è ancorata ad uno stile classico, l’arioso mid-tempo di The Damage We Have Done riesce a far confluire in un colpo solo un incedere alla Byrds con una melodia da dischi di Kate e Anna McGarrigle. Ma l’album gioca di varietà con la piano-ballad Scarlett Fever (qui sì che aleggia lo spirito della Denny), coi fiati che giocano sulla melodia di My Hopes Are Mine (dove torna sulle ragioni della fine dei Trembling Bells, aiutata tra l’altro dalla voce di “Miss Moonlight Shadow” Maggie Reilly), o l’incedere brit-pop di Morning To Remember (lei stessa cita i Kinks come influenza, ma io direi quasi più i Blur più classici). La Blackwall non rinuncia mai al suo vocalizzo alto e impostato (The Making), mostrando però le proprie doti e possibilità vocali con parsimonia, e sempre con rispetto al tema della canzone (bravissima nell’emotivamente sofferte We All Get Lost e The Art of Leaving, tra i brani più memorabili della raccolta).

Il finale non perde colpi con The Will To Be Wild e una eterea e riflessiva Sisters In Line in cui tornano protagonisti i fiati di Ross McRae e Richard Merchant. Dopo un esordio in cui aveva forse voluto metterci troppo, Lavinia Blackwall centra il bersaglio con un album che non perde semplicità nonostante gli arrangiamenti ben studiati, e soprattutto con dieci brani che spiegano perché si possa ancora essere moderni partendo dalla tradizione.

Nicola Gervasini

Robert Forster

 

Robert Forster

Strawberries

(2025, Tapete Records)

File Under : Strawberries fields forever

Tra i sopravvissuti all’incredibile e forse irripetibile calderone di grandi artisti usciti dalla scena australiana di fine anni settanta, l’ex Go.Betweens Robert Forster è forse uno di quelli più in credito con la fortuna (ma questa ormai è una banalità anche ricordarlo trattandosi di personaggi così di nicchia), ma anche uno di quelli che ancora sta tenendo un ritmo discografico qualitativamente altissimo. Se non conoscete la sua carriera solista, iniziata nel 1990 ancora in parallelo all’attività della band, recuperate lo splendido The Evangelist del 2008, ma in ogni caso anche i titoli più recenti valgono la pena. Questo Strawberries in particolare esce a poca distanza da The Candle and the Flame, disco piuttosto sofferto segnato dalla contemporanea morte della madre e dalla diagnosi di una grave malattia alla moglie Karin Bäumler, cercando però con tutta evidenza di esserne il capitolo di ritorno alla vita.

Ne esce di fatto un disco completamente diverso, non voglio dire “allegro” perché comunque questi racconti letterari, apparentemente meno autobiografici, sono pregni di disagi di varia natura, ma sicuramente positivo nel reagire alle avversità della vita. Ne è testimonianza anche il video che accompagna la title-track, che vede lui e una rigenerata moglie duettare nella loro cucina in una splendida pop-song, con tanto di fiati e citazioni dei Lovin Spoonful, video che testimonia la semplicità del personaggio e del suo messaggio artistico, ma anche la complessità delle sue trame da pop-rock d’altri tempi.  Ma è tutto il disco che vola altissimo fin dalla strana storia d’amore di Tell’It Back To Me, e passando per un numero da pub-rock degno del miglior Nick Lowe come Good To Cry, a quel lungo e splendido tour de force di folk-pop all’australiana (siamo in zona Paul Kelly quasi) che è Breakfast on The Train, Forster sembra aver trovato con questo disco (solo 8 brani, ma bastano) la chiusura del cerchio di una lunga carriera.

Nella seconda parte si viaggia un po’ più sul sicuro con brani che tornano a citare non poco il passato, come l’intro pianistica alla John Cale di Such A Shame, o come nelle atmosfere da rock anni 70 di All Of The Time. Ma è nel finale di Diamonds che le carte vengono rimescolate, introducendo un sax quasi free-jazz in un brano che ha ben altro spirito rispetto al clima più scanzonato del brano precedente (Foolish I Know), nel quale quasi veste i panni dell’elegante jazz-crooner. Un gran bel finale per un disco vario e alquanto ispirato, e soprattutto capace di usare l’ironia (leggetevi il testo di Foolish I Know) per tagliare quella soffocante patina di dolore che aveva reso non facilissimo da digerire il suo album precedente. E solo i grandi artisti hanno la capacità di cambiare registro rimanendo comunque sé stessi,  e di non perdere mai le proprie radici musicali fatte di pane e Kinks, ma da saperle riscrivere senza mai apparire sterilmente citazionista.

 

Nicola Gervasini

lunedì 7 luglio 2025

BOB MOULD

 

Bob Mould

Here We Go Crazy

(2025, Granary Music)

File Under: These Important Songs

 

Bob Mould è un intoccabile. Vale a dire uno di quei nomi su cui si è sempre tutti d’accordo, che nessuno oserebbe mai contestare, al riparo pure dalle manie di insensato revisionismo critico verso i mostri sacri che ha imperato in questi anni di discussioni musicali nei social. Non si ebbe il coraggio di metterlo in discussione neppure quando nel 2002 con Modulate azzardò un abbraccio all’elettronica, non poi così memorabile col senno di poi, ma è indubbio che il suo nome è sempre in cima quando si deve portare un esempio di integrità artistica e qualità costantemente alta. Ma da 15 anni a questa parte serpeggia tra le righe dei fans la sensazione che si sia un po’ arenato su un modello di canzone (che resta poi lo stesso degli anni con gli Hüsker Dü), senza più porsi il problema di nuovi azzardi.

Ho fatto una prova empirica, e ho ascoltato per la prima volta questo nuovo Here We Go Crazy subito dopo aver riascoltato Silver Age del 2012, considerando che in mezzo ci sono altri 4 album che hanno mantenuto bene o male lo stesso registro di suoni, ed effettivamente è stato difficile capire dove finisse il primo e dove iniziasse il secondo, se non per un leggero calo di ritmo e ferocia sonora evidenziato dal nuovo capitolo.

Si potrebbe quindi davvero ipotizzare che Mould faccia ormai da tempo lo stesso disco, sensazione amplificata dal fatto che di fatto stiamo parlando di album registrati dalla stessa band e sempre con la stessa “ratio” produttiva, e cioè con la sua chitarra iper-amplificata in primissimo piano, e la sezione ritmica di  Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria), sempre loro ormai da anni, che lo segue con la medesima veemenza ma sempre un po’ in sottofondo nel mix finale.

E sebbene qui brani come la title-track o Breathing Room si assestino su un ritmo più riflessivo e autoriale e meno da garage-rock, e in Lost Or Stolen riaffiori persino una chitarra acustica (ma nulla a che vedere con il suono elettro-acustico che aveva reso il suo esordio solista Workbook uno di suoi album più amati nel tempo), la solfa non cambia. Ma, e il “Ma” fortunatamente c’è, il finale di questa premessa non è un superficiale “ragazzi, ammettiamolo, Mould ormai rimesta la stessa minestra da anni”, perché se lo consideriamo un numero Uno del mondo del rock alternativo (o underground, o metteteci voi la definizione che ancora ritenete valida nel 2025), è perché Mould non ha mai smesso di essere un Autore, e pure uno dei migliori.

Immaginate ad esempio se Leonard Cohen avesse fatto a tempo registrare una sua versione di Hard to Get, o pensate se Joe Cocker avesse notato il potenziale da mainstream-rock radiofonico di una When The Heart is Broken, e davvero non si farebbe fatica a farlo. E questo funziona perché i brani di Mould sono ancora ottimi innesti di ottimi testi (qui più nostalgici del solito), e melodie “quasi-pop” che potrebbero vivere benissimo anche se confezionati con una carta da pacchi diversa da quella che lui usa ormai da anni. Here We Go Crazy è solo il nuovo capitolo di un lungo libro che forse potrebbe anche cominciare a stancare qualcuno, perché poi sì, probabilmente lui non cambia le impostazioni dell’amplificatore della propria chitarra da anni, e credo che se ne guardi anche bene dal farlo, ma abbiamo 11 nuove canzoni di Bob Mould, e non è mica facile trovarne di altrettanto belle anche nel 2025.

 

Nicola Gervasini

lunedì 30 giugno 2025

AJ CROCE

 

A.J. Croce

Heart Of The Eternal

(BMG Rights Management, 2025)

File Under: Play It Again, A.J.

L’esercito dei figli d’arte nel rock ha da sempre due categorie ben precise, e cioè quelli che in qualche modo ricalcano le strade paterne/materne semplicemente aggiornandole ai tempi, o chi invece si distacca del tutto, prendendo altri modelli stilistici. A.J. Croce, figlio del songwriter Jim Croce, è da anni un vero e proprio adepto di un suono a metà tra il Tom Waits degli anni 70 e il New Orleans sound di Dr. John, certo lontano dal cantautorato West Coast del padre. I suoi primi album negli anni 90 furono piuttosto apprezzati (se non li conoscete, recuperate subito That’s Me in The Bar, il migliore del lotto), poi nei primi 2000 anche lui sentì l’esigenza di provare a “normalizzare” il suo suono e il suo sound, e un po’ si era perso, ma già da qualche titolo degli ultimi quindici anni pare aver ritrovato la voglia di esprimersi col linguaggio al lui più congeniale. Per questo vi presentiamo questo Heart Of The Eternal, suo undicesimo album, un po’ come un nuovo capitolo di un libro già scritto, una sorta di prosecuzione del precedente album di inediti Just Like Medicine del 2017.

A fare la differenza è che qui a produrre c’è un altro nobile “figlio di”, uno Shooter Jennings che da qualche tempo sembra dare il meglio più come collaboratore che come primo nome, e che ammanta le canzoni di Croce con un suono più deciso e cristallino, sicuramente più in linea con le esigenze di riproduzione streaming odierne. Ma soprattutto è il primo vero album scritto di suo pugno uscito in seguito alla tragica morte della moglie, lutto che artisticamente aveva elaborato usando parole d’altri nel cover-record By Request del 2021, e aver lasciato passare qualche anno è stato sicuramente utile, perché i testi tengono conto sì del gran dolore patito, ma cercano anche una via positiva di ritrovata filosofia di vita e di amore, e di rasserenata coabitazione con i suoi lutti.

Insomma, fin dall’aggressivo giro di I Got A Feeling c’è voglia di vita e vitalità, voglia di avvolgersi nella calda e rassicurante coperta di un brano ovvio e stra-sentito (ma che non ci verrà mai a noia) come la baldanzosa On A Roll. Le cose si fanno serie con la soul-ballad Reunion, tra cori femminili e organi Hammond che sibilano come nella migliore tradizione, con il tango alla Calexico di Complications Of Love, con il blues di Hey Margarita e con la suadente The Best You Can. Il suo stile dei primi album torna a fare capolino in So Much Fun, e il momento quasi da crooner di All You Want. Tra gli ospiti troviamo la voce di John Oates e quella fascinosa di Margo Price nel finale tutto archi e cori di The Finest Line.  Tutto classicissimo e tutto prevedibilissimo, ma tutto anche fatto benissimo, a riprova che il ruolo che potrebbe avere A.J. Croce nel panorama musicale moderno sia quello di continuare ad essere un fiero “New Traditionalist”, senza tentazioni di cercare una modernità che proprio non gli si confà.

 

Nicola Gervasini

giovedì 26 giugno 2025

Ashleigh Flynn & the Riveters

 

Ashleigh Flynn & the Riveters

Good Morning, Sunshine

(2025, Blackbird Record Label)

File Under: Country Fun

 

Sono passati ormai 17 anni da quando su queste pagine vi consigliavamo l’album American Dream di una giovane cantautrice di nome Ashleigh Flynn, inizialmente presentata dalle sue cartelle stampa come una nuova Norah Jones, ma poi nel tempo sempre più adepta di un cantautorato ostinatamente e fieramente country-rock. La ragazza non ha forse più tenuto lo stesso livello da allora, fin quando poi ha deciso nel 2018 di uscire dalla solitudine e unire le forze con le Riveters, una “All-Female Americana & Rock Band”, come si autodefiniscono sul loro sito. E sappiamo bene quanto una band al femminile faccia storicamente scena nel panorama rock (chiedetelo anche a Dave Alvin ad esempio), e così la nuova combo (in totale 7 donne sul palco), dopo aver pubblicato un album d’esordio nel 2018, ha poi passato anni ad infiammare i palchi americani con set energici e più che coreografici.

Il titolo del loro secondo sforzo discografico in studio, Good Morning, Sunshine, esprime benissimo lo spirito:” fun fun fun” avrebbero detto i Beach Boys, per cui al bando ballate tristi e polemiche politiche, e via ad una celebrazione della vita da strada e da bar (l’apertura Drunk in Ojai lì ci porta fin da subito), in cui si da spazio alle musiciste e alla loro verve. In qualche modo oggi Ashleigh Flynn & the Riveters potremmo definirle come dei Commander Cody and His Lost Planet Airman in quota rosa (se non li ricordate, andate subito a studiare i loro dischi degli anni 70), per citare nomi classici, o delle Dixie Chicks più spensierate, per stare su esempi più recenti,  dove non si cerca tanto la proposta musicalmente originale, quanto il cocktail esplosivo di energia e suoni della tradizione.

In questo scenario Ashleigh Flynn forse perde un  po’ della sua personalità, ma ugualmente si cala bene nel ruolo di band-leader, cantando su toni altissimi e ricordando sempre più la Maria McKee dei tempi d’oro. Sul piatto girano pezzi di sapore rockabilly (Deep River Hollow), baldanzosi brani da line-dance come Eye of the Light, occhiate convinte al southern-rock come la title-track, e anche qualche momento più calmo come Love is An Ember, fino alla corale battuta di mani di Don’t Leave Me Lonesome. In questo mix di bluegrass, country e varie influenze di roots-music, la Flynn riesce a piazzare anche qualche testo impegnato sull’ecologia, e forse si potrebbe anche intuire un sottotesto sociale in brani danzerecci come Shake The Stranger, ma non è sulle parole che punta un disco nato per divertire e intrattenere durante un viaggio, durante una bevuta al bar, o semplicemente da suonare in casa in un giorno di festa. A Portland funziona benissimo, in Italia non so se fa lo stesso effetto, ma vale la pena provarci.

Nicola Gervasini

lunedì 23 giugno 2025

DEAN OWENS

 

Dean Owens

Spirit Ridge

(Continental Song City, 2025)

File Under: From Texas to Romagna

 

Nel 2008 proprio su queste pagine parlai del primo disco lanciato a livello internazionale di Dean Owens (Whiskey Heart), descrivendo uno scozzese fieramente innamorato dell’America, presentato sulle note di copertina dal connazionale Irvine Welsh come una sorta di esploratore di un immaginario che noi qui ovviamente ben conosciamo. Uno dei suoi primi dischi autoprodotti si intitolava Gas, Food & Lodging, e credo che questo basti per accendere qualche lampadina nei nostri riferimenti culturali.

Nonostante l’impegno del produttore e chitarrista Will Kimbrough, il disco non impressionò troppo (ai tempi davamo i voti  numerici, e si meritò un 6 di incoraggiamento), però il buon Owens ha continuato a studiare disco dopo disco, tonando nei nostri radar quando, decisosi per un trasferimento artistico in terra statunitense, ha cominciato a collaborare con gente come i Calexico per il già notevole Sinner's Shrine del 2022 e successiva saga di EP dedicati al confine messicano condensati nell’album El Tiradito (The Curse of Sinner's Shrine), a cui va aggiunto anche un side-project a tre mani sempre con Will Kimbrough e Neilson Hubbard (Pictures).

Insomma, Spirit Ridge è il classico disco in cui lo si aspetta un po’ al varco, perché ormai di esperienza ne ha tanta, e i buoni maestri non gli sono mancati, e infatti qui possiamo davvero a confermare che alla fine il “ragazzo” ce l’ha fatta a diventare un credibile cantore di frontiere yankee. E lo fa paradossalmente accasandosi nelle nostrane terre emiliane, sfruttando l’ormai consolidata esperienza di Don Antonio (alias Antonio Gramentieri) nel descrivere un certo immaginario musicale, contattato su consiglio proprio di John Convertino, che ha poi partecipato a queste sessions.

Potremmo quasi dire che Gramentieri ormai un disco del genere lo suona e produce ad occhi chiusi, e il suo tocco (e quello di alcuni suoi collaboratori, come ad esempio il chitarrista Luca Giovacchini) si sente al primo colpo nei riverberi dell’iniziale Eden Is Here o nel breve intermezzo mariachi di Spirito. A questo punto, se il risultato è garantito dal team, resta però da capire quanto Owens ci abbia messo di suo, e rispetto ad esempio al disco di 17 anni fa, in un brano tesissimo (e francamente bellissimo) come My Beloved Hills, è proprio la sua prova vocale che mostra una nuova maturità, che ribadisce come anche senza grandi e potenti mezzi vocali si possa comunque incidere su un brano.

Owens scrive tutti i brani con toni lenti e profondi, anche se c’è spazio anche per qualche episodio più veemente (l’epico dialogo tra chitarre e sezione d’archi di Light This World), e dopo un momento un po’ sperimentale (The Buzzard and the Crow), arriva l'uno-due da K.O. di Burn It All e Face The Storm, anima centrale del disco.

Dodici brani per 49 minuti, ma era difficile voler tagliare qualcosa, volendo lasciare spazio ai fiati di Michele Vignali e Francesco Bucci (arrangiati da Vanni Crociani) nella cavalcata di Wall Of Death, o per chiudere con i tre brani liricamente più intensi (A Divine Tragedy, Spirit Of Us e Tame The Lion). Un bel salto di qualità che porta quel 6 di un tempo ad un 8 pieno.

Nicola Gervasini

MATTHEW DUNN

  Matthew Dunn Love Raiders Cosmic Range Records   Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo pe...