15/04/2009
Rootshighway
VOTO: 5,5
Non è questione di genio e nemmeno di personalità: è la pigrizia il male che attanaglia buona parte delle produzioni odierne. E' l'essere un'artista indubbiamente capace, sicuramente talentuosa e dotata di gran gusto come Claire Holley, deliziosa cantautrice del Mississippi, ma non avere qualcuno a fianco che sappia scuotere, scatenare, violentare tanto tesoro umano. E' produrre un disco come Hush, quinto album in studio di un'artista dedita fin dal 1997 ad un folk urbano sullo stile della prima Suzanne Vega, e scoprire che in cinque anni Claire ha perso gran parte dell'energia che avevamo conosciuto anche su queste pagine con il precedente Dandelion del 2003. Anni in cui la Holley ha fatto la mamma al figlio Jack e si è dedicata alla realizzazione delle musiche per l'opera teatrale See Rock City di Arlene Hutten, temporeggiando con la pubblicazione di un cd dal vivo. Ora si ripresenta con dodici piccoli pensieri acustici che dovrebbero fare di misura ed essenzialità virtù, ma stavolta manca davvero qualcosa.
Il problema di Hush è che è un disco geometrico, perfetto nelle forme, definito nelle linee, estetizzante nella forma. La minuziosità con cui la Holley registra piccole storie folk come Go Away Now o Visit Me dà la certezza che entrando in casa sua non si troverà mai un oggetto fuori posto, un granello di polvere sul pavimento o una macchia di sporco sul divano. Bello quanto snervante, perché alla fine si passano questi trentasei minuti alla disperata ricerca di qualcosa che rompa tanta armonia, magari in occasione di un pezzo bluesato come Simple Meals, oppure quando la Holley utilizza le liriche del poema di Yeats "The Lake Isle Of Innisfree" per commentare le eteree note della sua Innisfree. Si spera in un'impennata di vitalità leggendo che negli studios di Los Angeles si aggira la sei corde di Greg Leisz, uno che sa far graffiare le chitarre quando vuole, ma anche lui si appallottola su se stesso come un gatto intento a fare le fusa.
Questione di pura indolenza secondo noi, di accontentarsi di piccoli quadretti come Under The Moon, di prevedibili standards come Stars Fell On Alabama, di uno strumentale tutto suggestione e niente sostanza come Goin West o dell'immancabile ninna nanna di Say Goodnight. Non c'è nulla di sbagliato in queste dodici canzoni, e alla fine questo è il loro più grande difetto: manca quel senso d'insicurezza che rende adrenalinici anche gli album più quieti e soffusi che si aggirano sullo stesso terreno. Manca la voglia di dare un'anima a poesiole cantilenanti come Edge Of A Storm senza fidarsi troppo delle proprie parole, anche quelle sempre quadrate, sempre esatte nel loro raccontare gli amori quotidiani di questa bella ragazza. Wedding Day e Leaving This Town restano i brani più riusciti, con quel loro umore vicino alla Rickie Lee Jones più folkie, ma vanno cercati. Se chiedete indicazioni a Claire, sarà impeccabilmente gentile nel dirvi dove stanno.
(Nicola Gervasini)
www.claireholley.com
www.myspace.com/claireholleymusic
">
sabato 9 maggio 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
THE BEST OF 2024
I MIEI ALBUM DEL 2024 (THE MOST USEFUL POST OF THE YEAR) Ho inviato le mie liste personalizzate alle due webzine per cui scrivo, ne facc...
-
NICOLA GERVASINI NUOVO LIBRO...MUSICAL 80 UN NOIR A SUON DI MUSICA E FILM DEGLI ANNI 80 SCOPRI TUTTO SU https://ngervasini.wixsite.com...
-
Jonathan Jeremiah Good Day [ Pias/ Self 2018 ] facebook.com/jjeremiahmusic File Under: il nostro disco che suona… di Nicola Gerva...
Nessun commento:
Posta un commento