martedì 1 giugno 2010
PAUL WELLER - Wake Up The Nation
E' irrequieto, nervoso e probabilmente anche un po' disorientato il Paul Weller di questi tempi. Buon segno forse, a 52 anni non è ancora tempo della definitiva trasformazione in Lord inglese da tè servito alle cinque, e, a giudicare dal tono incazzato e senza mezzi termini di Wake Up The Nation, quei tempi sembrano ancora ben lontani. Eppure ci aveva provato nel suo disco precedente a sedersi e a sognare, 22 sogni tra esercizi di stile, estetismi e vezzi d'artista che ammaliavano molto, ma che a conti fatti risultano essere uno dei pochissimi episodi minori della sua carriera. E così l'artista nella torre dorata ha deciso di tornare in strada, a svegliare se stesso prima ancora che un'intera nazione, urlando testi rivoluzionari che non sono già più quelli di un giovane barricadiero pieno di utopici ideali, ma bensì quelli di un vero e proprio leader politico d'opposizione. Per l'operazione Paul ha recuperato vecchi amici (spunta addirittura Bev Bevan, icona brit-rock dei Move e degli E.L.O.) e compagni di vecchie battaglie come l'ex Jam Bruce Foxton, ma soprattutto recupera sintesi, energia, rabbia.
Wake Up The Nation è un album rock and roll nello spirito, con le chitarre che spadroneggiano nonostante i mille inserti elettronici e gli arrangiamenti tutt'altro che scarni, ma se c'è un modello da prendere per questo disco è proprio quello delle punk-band di fine anni settanta: canzoni da 2-3 minuti, un paio di strofe e via dritti subito al ritornello, assoli di dieci secondi fatti su una corda, batterie sporche e tutto sommato un discreto casino generale. Weller però è artista intelligente e ne approfitta comunque per fare un buon sunto della sua carriera, per cui dopo il fulminante inizio di Moonshine con il suo piano martellante e una title-track che diventa di diritto la sua Street Fighting Man, ecco il motown-sound di No Tears To Cry e il tour de force lirico di Fast Car/Slow Trafic. Ed è qui che Paul si perde un po', perché stavolta era partito con un'idea chiara, ma l'ha confusa strada facendo inserendo strumentali che allentano solo il ritmo inutilmente (In Amsterdam), brani di stile indefinibile (Andromeda, She Speaks) e in definitiva troppa carne al fuoco che meritava più attenta cottura.
Paradossalmente dove convince di più è quando si mette a fare il capo-popolo con il coro di protesta di Find The Torch, Burn The Plans, piuttosto che quando rispolvera estetismi dance alla Style Council (Aim High), oppure quando esce decisamente dal seminato (i mille cambi d'abito di Trees, la punk disco-dance di Up The Dosage) piuttosto che quando tenta di normalizzarsi (Grasp & Still Connect, Pieces Of Dream). In ogni caso ben venga tanta vitalità, lui resta l'artista di vecchia generazione più creativamente acceso e da cui è lecito ancora aspettarsi sorprese e grandi cose. Non ci siamo ancora del tutto, ma la guerra, anche quella politica, si prospetta ancora lunga.
(Nicola Gervasini)
Rootshighway 21/05/2010
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