domenica 18 dicembre 2011

DEX ROMWEBER DUO - IS THAT YOU IN THE BLUE?


DEX ROMWEBER DUO
IS THAT YOU IN THE BLUE?
(Bloodshot, 2011)
***1/2

Potrebbe essere scambiato per uno dei nuovi artisti dediti all’antiquariato sonoro a cui siamo ormai abituati in questi ultimi anni (Pete Molinari, per dirne uno), ma a dispetto di un nome davvero poco conosciuto, Dexter Romweber strapazza accordi rockabilly fin dai primi anni 80 (con i Flat Duo Jets), figlio dunque del primo grande rivoluzionario rock and roll revival che generò nomi ben più noti come Stray Cats e Blasters. Da qualche anno Dexter ha ritrovato la possibilità di rilanciare la propria carriera grazie ad un contratto con la Bloodshot ed un nuovo sodalizio artistico con la sorella Sara, che nel frattempo aveva perso la pelle delle mani suonando i tamburi per i Let’s Active tra gli altri. Si potrebbe definirli una versione vintage dei White Stripes, vista la formazione a duo chitarra-batteria (e dietro al progetto c’è comunque lo zampino di Jack White), progenitori rigenerati dal revival per la musica anni cinquanta innescato dalle colonne sonore dei film di Quentin Tarantino (lo strumentale Gudjeff Girl sarebbe ideale per un sequel di Pulp Fiction), anche se Derek e Sara non sembrano tanto votati alla nostalgia, quanto ad una semplice constatazione: ok, le vie del rock saranno anche finite ormai, allora perché non ripartire per un nuovo giro visto che il primo ci è tanto piaciuto? Is That You In The Blue? è tutto qui quindi, serve a rispondere alla domanda “cosa produrrebbe un gruppo creativamente attivo se fossimo ancora negli anni 60?”. Rockabilly tribali come Jungle Drums forse, ballate malate alla Beasts Of Bourbon come Nowhere, pop-songs da passare a Nancy Sinatra alla prima occasione (The Death Of Me), beat inglese da Swingin’ London (I Wish You Would), ma potremmo tirare in ballo mille altri riferimenti (Homicide ad esempio sembra uno degli scherzi roots del duo Mojo Nixon-Skid Roper). Trovateci pure anche il Nick Cave quando gioca a fare il crooner (la title-track), le schitarrate di Duane Eddy o Link Wray (Climb Down), perfino la rauca irriverenza di Jon Spencer, il surf di Dick Dale e via discorrendo. Ciliegina sulla torta qualche divertissement percussivo con una versione da cantina del mega-classico Brazil di Ary Barroso, trasformato in una samba per ubriachi che Rio De Janeiro l’hanno vista solo in cartolina. Tutto già fatto, già detto, già sentito, già scritto. Allora perchè mai questo disco suona così moderno?
Nicola Gervasini

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