Tom Freund |
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Probabilmente Paola Barale avrebbe avuto misure ancor troppo ridotte per poter essere scritturata da Russ Meyer in uno dei suoi deliri ero-violenti per taglie extra-large di reggiseno, ma è certo che la showgirl di Fossano abbia nel tempo acquisito uno spirito da sexplotaition non indifferente. Se ne sono resi conto i Miss Fraulein, band nostrana che da qualche anno ha reso Cosenza più simile a Seattle con il loro sound tutto grunge e stoner rock che affonda a piene mani nel chitarrismo estremo degli anni 90. Il loro album The Secret Bond (MK/Indipendead) ha già raccolto critiche lusinghiere nel mondo indipendente europeo, anche grazie al primo video (You Know Why) diretto dall’attore locale Max Mazzotta (che qualcuno di voi ricorderà in molti film italiani, da Lavorare con Lentezza di Guido Chiesa a Parlami d’Amore di Muccino). Ed è pienamente anni 90 anche l’importanza data ai video come mezzo di presentazione primario dell’album, visto che il secondo estratto dell’album (Battle On Ice) è una sorta di versione lesbo-dark del mitico clip diCrazy degli Aerosmith, laddove, al posto delle pruderie teen impersonate da Liv Tyler e Alica Silverston, qui abbiamo una tatuatissima Barale sempre più perversamente in bilico tra il mondo dorato della tv italiana e quello della cultura estrema dei nostri sotterranei. E’ lei che, con spirito molto meno romantico delle Thelma e Louise che furono, rapisce una consenziente ragazzina pregnant (Stefania Sardo) per dare vita ad un road movie in puro stile anni 70 (con tanto di Alfa Romeo d’epoca). Alla fine il senso di tanta violenza e sesso (solo ammiccato) sta tutto nella vendetta verso un mondo maschile che non è neanche più quello dei nerds della generation X irrisi dalle sexy-bravate del duo Tyler-Silverstone, ma è diventato quello degli uomini-bestia da disco-club che le due donne vorrebbero (ma non ne troveranno il coraggio) uccidere definitivamente, a suggello di un intesa tra donne prima ancora che tra amanti. Ad uccidere il maschio, ormai ridotto a puro istinto primordiale, ci penserà il cacciatore, non quello eroico e travestito da giustizia della favola di Cappuccetto Rosso, ma quello assolutamente ignaro del senso del suo gesto e privo di qualsiasi morale che chiude il video e la vicenda. Il regista cosentino Fabio Rao filma puntando sulla frenesia dell’azione e indugiando spesso sulla star della situazione, finendo per ripercorrere le strade di Fernando Di Leo con evidente devozione, mentre i Miss Fraulein ci mettono la loro musica tesa, e le loro facce come comparse. E alla fine ne esce un convincente esempio di fai-da-te di provincia che si spera non debba rimanere relegato al mondo di YouTube.
Steve Cropper
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Per qualche giorno ho maledetto (come ogni anno d'altronde) la necessità di stilare in fretta le classifiche di fine anno sentendo questo Six Bucks Shy. Poi alla fine meno male che non ho avuto il tempo di prenderlo in considerazione, avrei sopravvalutato uno dei tanti prodotti dei bassifondi dell'Americana che al primo colpo ammalia, incanta, ma alla fine non assesta mai il colpo vincente. GliHat Check Girl sono un duo che deve il proprio nome ad un vecchio film del 1932 con Ginger Rogers (il regista era Sidney Lanfield, famoso soprattutto per la fortunata serie tv dedicata alla Famiglia Addams), nati da l'incontro di un vecchio leone della musica americana come Peter Gallway (su queste pagine abbiamo parlato del suo Freedom Is del 2008) e l'eterea e profonda voce di Annie Gallup. Il primo è sulla strada dal 1969 senza aver mai combinato granché di memorabile, se non aver dato vita all'effimera Fifth Avenue Band e aver tentato una carriera solista sotto l'ala della Reprise (due album tra il 1971 e il 1972) che è oggetto di ricerche tra i collezionisti, mentre dagli anni 90 è titolare di una produzione solista di tutto rispetto, seppur condannata ai margini. Probabilmente la produzione dell'ultimo incompleto album di Laura Nyro (il "sarebbe stato splendido" Angel In The Dark del 2001) resta il suo contributo più importante. |
Black Keys
I R.E.M. lo hanno insegnato a tutti (ma gli esempi nel mondo del rock si sprecano): prima o poi anche per le band indipendenti arriva il momento di decidere cosa si vuole fare da grandi. E siccome non a tutti capita la fortuna di azzeccare la smash-hit alla Losing My Religion che facilita il compito, l’unico modo per gruppi come i Black Keys (un duo chitarra-batteria dell’Ohio formato da Dan Auerbach e Patrick Carney) pare essere quello di uscire dal garage in cui hanno vissuto fino ad oggi (con molti onori e poche remunerazioni) e buttarsi nella mischia dell’etere radiofonico e soprattutto di YouTube e nuovi media connessi. Non è un caso che El Camino (Nonesuch), il loro settimo album, ha raccolto entusiasmi anche solo sulla fiducia di un semplice ma irresistibile video promozionale, dove una telecamera fissa riprende un uomo (trattasi del caratterista Derrick T. Tuggle) che canta e balla il brano Lonely Boy, mimando passi di danza che citano il Travolta di Pulp Fiction, Michael Jackson e un famoso balletto tratto dalla vecchia e fortunata serie tv The Fresh Prince con Will Smith. Non avendo il physique du role della rockstar come il collega Jack White dei White Stripes a cui sono spesso paragonati, Dan Auerbach già dal precedente album Brothers sta traghettando il suono sporco e selvaggio degli esordi verso un sixty-pop indurito (con aggiunta di vaghe spruzzate di soul) che è di moda e rappresenta bene i tempi, pur mantenendo intatto il marchio di fabbrica tutto hard-blues di stampo classico. A dare una mano nella svolta il produttore Danger Mouse, specialista nel rendere usufruibile a tutti ciò che nasce dal mondo della musica “per pochi” (si ricordano i suoi successi con i Gorillaz e Gnarls Barkley). Sarà per questo che El Camino, più che un album, pare una raccolta di singoli, con tanti motivetti da canticchiare e ballare a tutto volume nella propria stanza. Per i detrattori e i fans della prima ora saranno forse “solo canzonette” che strizzano l’occhio più a Nancy Sinatra che ai Led Zeppelin, per il mondo che li scopre solo ora a dieci anni dal loro esordio, uno dei più elettrizzanti party-record di questa stagione.
ALBERTA CROSS
THE ROLLING THUNDER EP
ATO rec.
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Stop! Frenata improvvisa, momento di calma, riflessione e partenza da capo. Si sono fermati in tempo gli Alberta Cross, strano caso della musica indipendente più recente. Osannati da più parti per un piccolo EP d’esordio nel 2007 (Thief & The Heartbreaker), questa giovane band è stata poi unanimemente bocciata al primo tentativo effettivo, arrivato pure tardivamente ben tre anni dopo (Broken Side Of Time). Ora, il sestetto capitanato da Petter Ericson Stakee ritorna al formato ridotto, preannunciando l’ennesima svolta stilistica con The Rolling Thunder, EP di cinque brani che potrebbe riportare l’interesse nei loro confronti. Niente a che vedere con l’atteggiamento indie-rock dell’esordio, e neppure con il rumoroso pastiche psichedelico del disco d’esordio, ma semplicemente un intelligente recupero dei suoni degli anni settanta rivolti in chiave moderna. L’uno-due iniziale rappresentato dalla radiofonica Money For The Weekend (sembra di risentire i Kula Shaker degli esordi) e Ramblin Home fanno davvero pensare ad un gruppo di ragazzi che si sono sciroppati i vecchi album dei Wishbone Ash prima di entrare in sala di registrazione, ma basta già il terzo brano (Wait) a confondere l’idee con tastieroni, echi elettronici, sonorità a metà strada tra i Cure e i My Morning Jacket. Segno che, seppur più convinti in fase di scrittura, la band ancora non ha deciso da che parte stare, tanto che anche Driving With Myself continua ad abusare di qualche falsetto e ritornello che calpesta addirittura i terreni dei Coldplay. Chiude la sognante e pianistica title-track che conferma solo la presenza di un talento vero quanto una pericolosa indecisione su cosa fare da grandi. In attesa del secondo vero album comunque, Rolling Thunder conferma che i sei stanno lavorando duramente per l’agognata maturità
Nicola Gervasini
Non abbiamo tempo, spazio e soprattutto vocazione per rastrellare la tanta musica indipendente italiana che popola l'etere, ma ogni tanto i confini tra il rispetto per le tradizioni d'oltreoceano e canzone d'autore nostrana sono talmente labili che non è possibile far finta di nulla davanti ad un disco come quello dei Mircanto, trio bergamasco capitanato da Daniele Nava e Thomas Foiadelli e completato dal piano di Nicola Agazzi (con l'aggiunta del batterista Alessandro Lampis in session).Esercizi di Statica è il loro secondo album dopo Le Finestre Sono Aperte del 2009, ed è un riuscito esempio di come si possa coniugare la tradizione melodica di Lucio Battisti, lo spleen dell'indie italiano in stile Le Luci della Centrale Elettrica o Dente, con una struttura musicale decisamente folk, che pesca a piene mani sia nel brit-folk più classico che nella tradizione americana. Pare di sentire una versione lombarda dei Midlake (e lo si prenda come un complimento), aggiornata con tutti gli umori negativi della provincia nostrana, raccontata senza timore di abusare di tinte grigie, utilizzando malinconia e silenzio come elementi integranti degli arrangiamenti. Si segnalano la title-track e il singolo Dicembre, ma il fatto che le emozioni arrivino anche da uno strumentale (Mircanto) indica che le premesse per un ulteriore maturazione ci sono tutte. (
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(Nicola Gervasini)
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