Il passo era prevedibile:
uscito dai Felice Brothers (anche se non si capisce bene se definitivamente o
no), il (fu) batterista Simone Felice
approda all’esordio solista dopo aver archiviato in soli due interessantissimi
album l’esperienza con i The Duke & The King. Schiacciato
dall’impossibilità di far valere il suo spessore artistico all’interno della
sua band d’origine, Simone si è fatto paladino di una roots-music sempre più
sbilanciata verso atmosfere indie-pop malinconiche e lontanissime del fragore
rock. Nessun vero taglio netto con il passato comunque: in session compaiono comunque
i “fratelli” Ian e James Felice, e l’utilizzo costante di un coro scolastico
delle montagne di Catskill, (regione da cui tutti provengono) evidenziano come
comunque la sua opera è ancora legata al passato. Ancor meno differenze si
notano con quanto prodotto come The Duke & The King, anche se si registra
un aumento di orchestrazioni e arrangiamenti barocchi, quasi a voler combattere
la concorrenza di John Grant sullo stesso terreno (e la somiglianza tra i due
comincia ad essere più che evidente). Tra gospel camuffati (You & I Belong), ispirate piano-ballads
(le sad news raccontate in New York Times)
e dediche in acustico ai miti di gioventù (Courtney
Love, con quel eloquente “hai un brutto modo d’amare Courtney”), il disco
stenta forse a trovare il proprio highlight, ma mantiene sempre un livello
invidiabile. Si nota anche una certa normalizzazione di certe trame, con una Stormy-eyed Sarah che comincia a battere
i terreni classici di Ray LaMontagne nel ricordare vecchie fiamme estive di
gioventù (“cantavamo Eleonor Rigby, ci facevamo una canna, e poi…”), o una
splendida Charade che batte gli
bassifondi emotivi di certe ballate marcate Felice Brothers (“Hai gli occhi più
tristi che abbia mai visto e ti piace Roy Orbison…”). Il taglio dei testi è
sempre in linea con il mood crepuscolare delle melodie, con storie di tragedie
familiari (Dawn Brady’s Son) o più
noti episodi di cronaca nera dello spettacolo (Ballad Of Sharon Tate, che mette l’accento proprio su come
l’assassino in questione fosse stato accettato nella cerchia delle star
televisive proprio in quanto cantautore di belle speranze). Lui punta il dito
anche contro le sue pessime condizioni di salute (nonostante la giovane età,
nel 2010 ha dovuto applicarsi una sorta di pacemaker per problemi al cuore), ma
alla fine se Simone Felice risulta un buon album ma non il botto che
speravamo è proprio per una troppa autoindulgenza verso il proprio dolore che
lo rende fin troppo monolitico e senza momenti di respiro. Ma c’è abbonante
spazio per crescere ancora.
Nicola Gervasini
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