The Walkmen
Heaven
La fine degli
anni zero è stata davvero un momento d’oro per i Walkmen. La band newyorkese, che mette d’accordo spesso mondo indipendente
e ascoltatori più classic-oriented. ha fatto il colpo con la ben venduta e altrettanto
ben criticata accoppiata di album You And
Me del 2008 e soprattutto Lisbon di
due anni dopo, un disco che il quintetto ha suonato a lungo nei tanti concerti
tenuti in questo biennio, nato da un momento creativo fortissimo che ha fatto sì
che ben 17 brani venissero scartati dalla versione finale . Difficile dunque
non pensare che Heaven peschi linfa
vitale da quel momento felice, primo perché arriva in fretta a battere il
chiodo finchè scotta, secondo perché la somiglianza con il predecessore è netta
a dispetto dei proclami di rinnovamento delle prime interviste. Heaven nasce dunque un po’ come figlio
minore di Lisbon, nonostante tenti di
spiazzare tutti infilando in apertura due brani quasi-folk come We Can’t Be Beat e Love Is Luck. Ma già con la veemente Heartbreaker e l’ipnotica The
Witch la band guidata dalla voce di Hamilton Leithauser ritrova la propria verve elettrica, anche
se è solo un momento, perché subito Southern
Heart e il lungo arpeggio alla Radiohead vecchia maniera di Line By Line richiedono più attenzione
all’ascoltatore. Bisogna aspettare Song
For Leigh per incontrare la prima jingle-jangle song che fa battere il
piedino, ed è qui che lo spessore della band torna alla ribalta, capace di
suonare semplice e fruibile senza perdere in profondità. Heaven vive dunque questa
contraddizione, perennemente in bilico tra la voglia di trovare la pop-song da
radio-play alla Coldplay (i fastidiosi coretti di Nightingales vanno da quella parte…) e la voglia di dimostrarsi
“maturi” come il discreto finale di Dreamboat.
Ma il paio di accordi messi in croce di The
Love You Love o l’elementare giro della title-track dovrebbero insegnargli
che a volte basta davvero poco per trovare la giusta via per il loro power-pop,
senza doversi avventurare troppo in strade troppo impervie. Heaven resta un disco di spessore anche
se sa di opera di passaggio, un tentativo parzialmente riuscito di ripulire
ulteriormente il loro suono grazie alle cure del produttore Phil Ek (collaboratore dei Fleet Foxes, e non a caso Robin Pecknold contribuisce ai cori), anche se sarà il
tempo a dirci se la direzione intrapresa porterà frutti ancora migliori.
Nicola Gervasini
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