REGINA SPEKTOR
WHAT WE SAW FROM THE
CHEAP SEATS
Sire records
***
Lei probabilmente
è una delle prime artiste miracolate di YouTube, uno dei primi casi nel 2006 in
cui si parlò di lei quando un suo singolo arrivò ad essere visto più di
duecentomila volte nello stesso giorno. Figlia della nuova dittatura del web
che decide le nuove tendenze in barba agli uffici marketing delle case
discografiche (ormai di fatto in via d’estinzione), Regina Spektor è stata negli anni 2000 una delle più credibili e
autorevole esponenti del mondo della canzone femminile d’autore. Pianista alla
Carole King/Laura Nyro ma con l’approccio un po’ artistoide alla Kate Bush/Tori
Amos, la Spektor sta via via sempre più valorizzando le proprie capacità di
intrattenitrice, e il nuovo album What We Saw From The Cheap Seats lo
dimostra fin dalla colorata e scherzosa copertina. Produce il tutto il fido
amico Mike Elizondo, uno che viene
dal mondo dell’hip hop newyorkese fin dai tempi della scoperta di Eminem e Dr
Dre. Dopo l’interlocutorio inizio di Small
Town Moon il disco prova a metterla sul ridere con una Oh Marcello che mischia numeri da cabaret con il classico Don’t Let Me Be Misunderstood, e con uno
stravolgimento di Ne Me Quitte Pas
(ribattezzata Don’t Leave Me) rifatta
in una versione caraibica che piacerebbe molto a Jimmy Buffett. Potrebbe
sembrare una raccolta di scherzi d’autore, se non fosse che la piano-song Firewood arriva giusto in tempo a
ricordarci quanto vale la Spektor quando s’impegna seriamente. Ritmo ad alto
livello fino a qui, poi arrivano gli inevitabili momenti di stanca, prima con
una Patron Saint solo discreta e con la
coraggiosa avventura piano-archi di How
che ristabilisce i contatti con il cantautorato femminile più classico (Laura
Nyro benedice dall’alto) ma che offre però una prova vocale forse troppo
sguaiata e sopra le righe per l’atmosfera del pezzo. Questo voler strafare o
una certa pretenziosità sono da sempre i punti deboli che la critica ha spesso
contestato alla Spektor, ma bisogna
ammettere che lei ci sa fare anche quando da sfogo alla sua teatralità (All The Rowboats). Finale con i toni più
tronfi e maestosi di Open, quelli
gentili di The Party e la dolce
ballata acustica Jessica a chiudere
le danze di una album che parte con brio per chiudersi in piena malinconia,
quasi un percorso voluto di una artista che sta cominciando davvero a
gigioneggiare troppo lasciando il proprio talento sempre troppo nelle retrovie.
Consigliato comunque, ma leggete bene le avvertenze e le modalità d’uso,
potrebbe non essere medicina per tutti.
Nicola Gervasini
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