venerdì 27 luglio 2012

REGINA SPEKTOR


REGINA SPEKTOR

WHAT WE SAW FROM THE CHEAP SEATS

Sire records

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Lei probabilmente è una delle prime artiste miracolate di YouTube, uno dei primi casi nel 2006 in cui si parlò di lei quando un suo singolo arrivò ad essere visto più di duecentomila volte nello stesso giorno. Figlia della nuova dittatura del web che decide le nuove tendenze in barba agli uffici marketing delle case discografiche (ormai di fatto in via d’estinzione), Regina Spektor è stata negli anni 2000 una delle più credibili e autorevole esponenti del mondo della canzone femminile d’autore. Pianista alla Carole King/Laura Nyro ma con l’approccio un po’ artistoide alla Kate Bush/Tori Amos, la Spektor sta via via sempre più valorizzando le proprie capacità di intrattenitrice, e il nuovo album What We Saw From The Cheap Seats lo dimostra fin dalla colorata e scherzosa copertina. Produce il tutto il fido amico Mike Elizondo, uno che viene dal mondo dell’hip hop newyorkese fin dai tempi della scoperta di Eminem e Dr Dre. Dopo l’interlocutorio inizio di Small Town Moon il disco prova a metterla sul ridere con una Oh Marcello che mischia numeri da cabaret con il classico Don’t Let Me Be Misunderstood, e con uno stravolgimento di Ne Me Quitte Pas (ribattezzata Don’t Leave Me) rifatta in una versione caraibica che piacerebbe molto a Jimmy Buffett. Potrebbe sembrare una raccolta di scherzi d’autore, se non fosse che la piano-song Firewood arriva giusto in tempo a ricordarci quanto vale la Spektor quando s’impegna seriamente. Ritmo ad alto livello fino a qui, poi arrivano gli inevitabili momenti di stanca, prima con una Patron Saint solo discreta e con la coraggiosa avventura piano-archi di How che ristabilisce i contatti con il cantautorato femminile più classico (Laura Nyro benedice dall’alto) ma che offre però una prova vocale forse troppo sguaiata e sopra le righe per l’atmosfera del pezzo. Questo voler strafare o una certa pretenziosità sono da sempre i punti deboli che la critica ha spesso contestato alla Spektor, ma  bisogna ammettere che lei ci sa fare anche quando da sfogo alla sua teatralità (All The Rowboats). Finale con i toni più tronfi e maestosi di Open, quelli gentili di The Party e la dolce ballata acustica Jessica a chiudere le danze di una album che parte con brio per chiudersi in piena malinconia, quasi un percorso voluto di una artista che sta cominciando davvero a gigioneggiare troppo lasciando il proprio talento sempre troppo nelle retrovie. Consigliato comunque, ma leggete bene le avvertenze e le modalità d’uso, potrebbe non essere medicina per tutti.
Nicola Gervasini

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