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sabato 23 febbraio 2013
TED MORRIS
giovedì 21 febbraio 2013
MARC CARROLL
MARC
CARROLL
STONE
BEADS AND SILVER
One Little Indian/Self
***1/2

Nicola
Gervasini
lunedì 18 febbraio 2013
GRANT LEE PHILLIPS
GRANT
LEE PHILLIPS
WALKING
ON THE GREEN CORN
Magnetic Field
**
Non è facile sbagliare completamente un album
oggigiorno. Esperienza e manierismo imperano in quest’era di opere medie,
eppure ci sono ancora artisti che hanno il coraggio di provarci, e dunque di
sbagliare. Stavolta tocca a Grant Lee
Phillips, uno che a metà anni novanta dopo la strepitosa doppietta iniziale
a nome Grant lee Buffalo (Fuzzy e Mighty Joe Moon) pensavamo destinato
all’olimpo dei grandi, e che invece da allora si barcamena come può tra alti e
bassi, che, a parte qualche raro caso (l’ottimo Virginia Creeper del 2004), hanno sempre e solo fatto rimpiangere
quei due riuscitissimi album. Ultimamente con gli album Strangelet (2007) e Little
Moon (2009) si è era fatto prendere da una neanche troppo fastidiosa vena
poppish che lo rendeva leggero ma ancora gradevole visto che la voce resta
quella di un tempo, ma con questo nuovo Walking in the Green Corn Phillips
tenta una via indie-roots da cantautore triste e disturbato che non gli appare
poi troppo congeniale. A questi dieci brani manca volutamente ritmo, luce,
vita, e non basta ad animarli la poesia cercata dai testi che narrano del suo
sentirsi americano attraverso l’amore per la vita rurale (la title-track è una
sorta di dichiarazione filosofica in tal senso), qualche stoccata politica in
vista delle ormai passate elezioni statunitensi e molta descrizione del proprio
isolamento in una dimensione di copia (vive con la cantante/fotografa Denise
Siegel). Quello che un po’ spiace è proprio che sia l’insieme che non regge,
perché poi magari prese ad una ad una si scopre che The Straighten Outer potrebbe far
parte del songbook dei suoi giorni migliori, e che alcune
interpretazioni vocali che cercano non poco certe cose più intimiste di Eddie
Vedder lo attestano come uno dei migliori interpreti sulla piazza. Quello che
manca è una costruzione musicale che vada al di là della sua chitarra acustica
e qualche mandolino mai troppo invadente, con la voce e il violino di Sara Watkins a rappresentare l’unica
variazione sul tema. Resta la classe e la capacità comunque di piazzare quel
paio di colpi che valgono comunque lo scomodarsi a dargli retta, ma il ricordo
del potente muro del suono che erano i Grant Lee Buffalo dal vivo negli anni
d’oro è ancora troppo vivo per poter accettare a cuor leggero un disco del genere.
Nicola
Gervasini
mercoledì 13 febbraio 2013
BEN HARPER & CHARLIE MUSSELWHITE
![]() | Ben Harper with Charlie MusselwhiteGet Up! [Stax/ Concord 2013] www.benharper.com www.charliemusselwhite.com ![]() di Nicola Gervasini (30/01/2013) | ![]() |
Tra i nomi più in auge negli ultimi quindici anni in termini di musica delle radici, quello di Ben Harper è sicuramente uno dei più discussi. Grazie alla notorietà acquisita ai tempi del vendutissimo Diamonds On The Inside, la sua arte ha collezionato sì miriadi di fans improvvisati (che sono gli unici che possono "fare mercato" oggigiorno), ma ha richiamato anche l'attenzione di tanti accaniti detrattori. E' il destino inevitabile di chi ce l'ha fatta ad uscire da una nicchia senza aver poi particolari meriti né demeriti, se non magari quello di essere arrivato molto prima di altri ad anticipare un modo di fare roots-music che più che agli anni 90 appartiene al duemila. Chi lo tratta con sufficienza si fa forte di una discografia che, dopo il buon livello tenuto per i primi cinque titoli, si è barcamenata con prove non sempre degne del suo buon nome.
Fa riflettere soprattutto che l'unico album dei suoi anni zero ad aver convinto tutti sia stata la collaborazione con i Blind Boys Of Alabama nel gospel-oriented There Will Be a Light del 2004 (vale a dire il suo disco teoricamente più classico e prevedibile), mentre quando il nostro ha tentato vie più rivolte al nuovo indie-rock, i risultati hanno raggiunto anche il disastroso (Give Till It's Gone ). Lo conferma anche Get Up!, collaborazione a lungo cercata con l'armonicista Charlie Musselwhite, arrivata a confermare che forse Harper dovrebbe arrendersi all'evidenza di essere un ottimo performer di gospel-blues e non certo un innovatore o un grande autore rock. Qui non siamo ai livelli d'intensità di There Will Be a light, ma appare subito chiaro che questi dieci brani ristabiliscono un contatto più umano tra la sua musica e le nostre orecchie, grazie soprattutto alla scelta di non voler strafare e di seguire giri blues classici (I'm In I'm Out And I'm Gone) e spaziare dal blues più nero (la lunga e strascicata title-track) a soluzioni più "bianche", quasi da "brit-blues" alla John Mayall (She Got Kick).
La bravura di Harper in questo caso sta tutta nel far risaltare una voce non certo potente e da vero bluesman, mentre Musselwhite come al solito conferma di essere uno dei pochi armonicisti blues ad aver capito quanto "less is better" con uno strumento che, se abusato, può stancare facilmente. Nell'economia del buon risultato manca forse il brano killer, ma nel complesso il mix di episodi rilassati (Don't Look Twice, You Found Another Lover) alternati a veementi sfuriate (l'incattivita I Don't Believe A Word You Say e la rauca Blood Side Out) piace non poco, soprattutto se condito con qualche variazione gospel (We Can't End This Way) che non guasta mai. Normalmente se un artista si rifugia in un disco "di genere" non è mai un buon segno di vitalità artistica, ma nel caso di Harper potremmo fare un'eccezione e consigliare un più frequente "back to the roots" .
Fa riflettere soprattutto che l'unico album dei suoi anni zero ad aver convinto tutti sia stata la collaborazione con i Blind Boys Of Alabama nel gospel-oriented There Will Be a Light del 2004 (vale a dire il suo disco teoricamente più classico e prevedibile), mentre quando il nostro ha tentato vie più rivolte al nuovo indie-rock, i risultati hanno raggiunto anche il disastroso (Give Till It's Gone ). Lo conferma anche Get Up!, collaborazione a lungo cercata con l'armonicista Charlie Musselwhite, arrivata a confermare che forse Harper dovrebbe arrendersi all'evidenza di essere un ottimo performer di gospel-blues e non certo un innovatore o un grande autore rock. Qui non siamo ai livelli d'intensità di There Will Be a light, ma appare subito chiaro che questi dieci brani ristabiliscono un contatto più umano tra la sua musica e le nostre orecchie, grazie soprattutto alla scelta di non voler strafare e di seguire giri blues classici (I'm In I'm Out And I'm Gone) e spaziare dal blues più nero (la lunga e strascicata title-track) a soluzioni più "bianche", quasi da "brit-blues" alla John Mayall (She Got Kick).
La bravura di Harper in questo caso sta tutta nel far risaltare una voce non certo potente e da vero bluesman, mentre Musselwhite come al solito conferma di essere uno dei pochi armonicisti blues ad aver capito quanto "less is better" con uno strumento che, se abusato, può stancare facilmente. Nell'economia del buon risultato manca forse il brano killer, ma nel complesso il mix di episodi rilassati (Don't Look Twice, You Found Another Lover) alternati a veementi sfuriate (l'incattivita I Don't Believe A Word You Say e la rauca Blood Side Out) piace non poco, soprattutto se condito con qualche variazione gospel (We Can't End This Way) che non guasta mai. Normalmente se un artista si rifugia in un disco "di genere" non è mai un buon segno di vitalità artistica, ma nel caso di Harper potremmo fare un'eccezione e consigliare un più frequente "back to the roots" .
venerdì 8 febbraio 2013
LOCAL NATIVES - HUMMINGBIRD
LOCAL
NATIVES
HUMMINGBIRD
Frenchkiss
***
Autori di uno di quegli smash-first-records che
hanno ravvivato la scena indie-folk nel 2009 (Gorilla Manor), i Local
Natives sono un quartetto di Salt Lake City formato da Taylor Rice, Kelcey
Ayer, Ryan Hahn e Matt Frazier. Anticipato dal singolo Breakers, dopo ben quattro anni di travagliata gestazione arriva
finalmente il secondo album, semplicemente intitolato Hummingbird. Fin
dall’iniziale You And I (ma ancor più
evidente nella successiva Heavy Feat)
appare l’intenzione di spostare il sound della band da il psych-folk
dell’esordio che ha portato complimenti ma anche qualche buona vendita (sono
comunque entrati nella billboard americana, anche se solo al centosessantesimo
posto), verso un suono più sofisticato, dove stavolta sono le tastiere a
prendere spesso il sopravvento. Fate conto una versione meno radiofonica dei
Coldplay odierni con qualche influenza Fleet Foxes o dei Grizzly Bear. Forse
solo la logica conseguenza di aver affidato la produzione ad Aaron Dessner dei National, l’uomo
giusto per confezionare suoni perfetti per accontentare un pubblico giovane ma
esigente e al tempo stesso avere possibilità di airplay nelle radio americane.
Voce eterea, grande attenzione alle melodie, abile intrecci tra tastiere e
chitarre, basi ritmiche che cercano spesso una via alternativa (il singolo Breakers appare decisamente elaborato in
tal senso), Hummingbird è un disco sognante
e per sognatori, dove c’è spazio per momenti di sofferta riflessione (Black Spot, Three Months) ma anche per lo
spensierato svago di un motivo da fischiettare (Mt Washington) o per cavalcate evocative che ricordano anche gli
Shearwater (Wooly Mammoth). Manca
forse il brano che rompe il ritmo, ma è elemento comune del genere quello di non
spaziare troppo tra i generi in nome di un’identità stilistica ben precisa, e
la produzione di Dessner a volte esagera con qualche svolazzo estetico di
troppo, ma è innegabile che i Local Natives si confermano come una delle realtà
più vive e in prospettiva più promettenti del mondo sotterraneo della West
Coast. Magari ripartendo dal fondo, da quella Bewday che chiude il disco lasciando intravedere con i suoi cambi
di ritmo nuovi intriganti sviluppi.
Nicola
Gervasini
mercoledì 6 febbraio 2013
RAYMOND BYRON AND THE WHITE FREIGHTER - LITTLE DEATH SHAKER
RAYMOND
BYRON AND THE WHITE FREIGHTER
LITTLE
DEATH SHAKER
Asthmatic Kitty Records
***1/2
E avanti un altro. Non si placa la moda tutta anni
2000 del frontman che si fa crescere una lunga barba da eremita e si veste di
nuovi panni in puro indie-style (copertina da manuale in questo senso…).
Stavolta tocca a Raymond Raposa,
leader (se non unico one-man band) dei Castanets
(anche qui la moda 2000 dell’eterno dubbio “ma è un gruppo o una persona sola?”
lo ha colto fin dal suo esordio del 2003), che cambia nome e fonda i Raymond Byron and the White Freighter ,
nickname probabilmente estemporaneo nato per dare paternità ad una manciata di
brani che sembravano essere fuori contesto rispetto alla sua solita
produzione. Little Death Shaker è un
bell’insieme di dark-songs lente e spesso alquanto elettriche nel sound,
qualcosa che più che dall’indie-folk degli anni 2000 va a pescare
nell’underground degli anni precedenti, prendendo un po’ a prestito la
strascicata elettricità di Jason Molina e certa poesia da blues distorto dei
Gun Club. Tra country obliqui (Don’t That
Lake , Just Shine, con un toy-piano decisamente alla Neil Young), folk
disturbati (Turnpike Bedsheet) e
brani rauchi basati su una chitarra elettrica iper-amplificata (Allegiance), l’album evidenza buona
ispirazione e una penna spesso notevole (ad esempio l’ottima Some Of My Friends, riflessione sulle
false amicizie di superficie che popolano la nostra esistenza, con un testo che
non lesina battute di spirito come “alcuni miei amici sono gelosi l’uno del manager
dell’altro”). La lezione da folk intimista (se non proprio “depresso”) affiora
più nella parte centrale, con l’intensa Whipporwill,
cantata con voce rotta e impreziosita da una crescente sezione fiati. Quello
che più si apprezza di Little Death Shaker è che proprio nella sua monolitica assenza
di ritmo, non è comunque avaro di soluzioni e strumenti, con alcuni importanti
interventi come quello di Matthew Houck alias Phosphorescent che ingentilisce l’incedere oscuro di Some Kind OF Fool e Meridian,MS., oppure la soffice voce di Talia Gordon che ridona nuova linfa alla bella You’re Not Standing Like You Used To di Kate Wolf (l’altra cover presente è You’ll Never Surf Again del folksinger
Dan Reeder). Talvolta si esagera, come in una State Line che pare registrata negli inferi in compagnia di un
giovane Nick Cave e che risulta un po’ faticosa, ma sono particolari. Disco
intrigante per la sua tetra veste sonora,
Little Death Shaker è opera da
suonare rigorosamente di notte, stando però bene attenti che i vicini siano già
in sonno profondo. Potreste essere causa dei loro incubi.
Nicola Gervasini
lunedì 4 febbraio 2013
SACRI CUORI - Rosario
Gramentieri e soci sono evidentemente nati masticando roots-music e film di Quentin Tarantino (che tranquillamente avrebbe potuto usare brani come El Gone o El Conte per commentare la sua ultima fatica Django), ma Rosario si spinge oltre, in un orizzonte sconfinato che persino gli stessi Calexico ultimamente sembra facciano fatica a vedere. E cioè in una concezione nuova di musica a 360 gradi, dove le definizioni e gli steccati stilistici svaniscono in arditi mix culturali e dove gli elementi "americani" convivono perfettamente con quelli europei (Quattro Passi sa di tema da commedia italiana), dove la musica dei circhi dei Balcani (Sipario!) viene portata in Romagna (Lido) attraverso danze gioiose (Teresita, sorta di versione virata a liscio di Tequila) o tristi passeggiate da mare in inverno (Out Of Grace). Album da ascoltare preferibilmente sollecitati da un degno contraltare visivo (un tramonto, un quadro, una strada, il vostro partner, scegliete voi…), Rosario scorre senza intoppi, trovando varietà nella sua unitarietà sonora, con brani che via via tengono alta la tensione (Sundown, Rosa), si fanno minacciosi (Steamer), giocosi (Lee-show) o rilassati (Where We Left). A questo suggestivo pastiche di generi (ma non "di genere") partecipano divertiti musicisti come David Hidalgo, Jim Keltner, Marc Ribot, l'ex Long Ryders Stephen McCarthy e una Isobel Campbell che dona voce alla sognante Silver Dollar che apre il disco, ma se la lista dona prestigio all'operazione, non deve far sfuggire la bravura dei padroni di casa. Non "italiani che fanno gli americani", nemmeno "italiani che vanno in America", ma musicisti di un mondo musicale che sta diventando sempre più vasto, dove nulla più si può inventare, ma tanto ancora c'è da incontrare, scoprire, conoscere e interiorizzare. |
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