lunedì 18 febbraio 2013

GRANT LEE PHILLIPS


GRANT LEE PHILLIPS
WALKING ON THE GREEN CORN
Magnetic Field
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Non è facile sbagliare completamente un album oggigiorno. Esperienza e manierismo imperano in quest’era di opere medie, eppure ci sono ancora artisti che hanno il coraggio di provarci, e dunque di sbagliare. Stavolta tocca a Grant Lee Phillips, uno che a metà anni novanta dopo la strepitosa doppietta iniziale a nome Grant lee Buffalo (Fuzzy e Mighty Joe Moon) pensavamo destinato all’olimpo dei grandi, e che invece da allora si barcamena come può tra alti e bassi, che, a parte qualche raro caso (l’ottimo Virginia Creeper del 2004), hanno sempre e solo fatto rimpiangere quei due riuscitissimi album. Ultimamente con gli album Strangelet (2007) e Little Moon (2009) si è era fatto prendere da una neanche troppo fastidiosa vena poppish che lo rendeva leggero ma ancora gradevole visto che la voce resta quella di un tempo, ma con questo nuovo Walking in the Green Corn Phillips tenta una via indie-roots da cantautore triste e disturbato che non gli appare poi troppo congeniale. A questi dieci brani manca volutamente ritmo, luce, vita, e non basta ad animarli la poesia cercata dai testi che narrano del suo sentirsi americano attraverso l’amore per la vita rurale (la title-track è una sorta di dichiarazione filosofica in tal senso), qualche stoccata politica in vista delle ormai passate elezioni statunitensi e molta descrizione del proprio isolamento in una dimensione di copia (vive con la cantante/fotografa Denise Siegel). Quello che un po’ spiace è proprio che sia l’insieme che non regge, perché poi magari prese ad una ad una si scopre che The Straighten Outer potrebbe far  parte del songbook dei suoi giorni migliori, e che alcune interpretazioni vocali che cercano non poco certe cose più intimiste di Eddie Vedder lo attestano come uno dei migliori interpreti sulla piazza. Quello che manca è una costruzione musicale che vada al di là della sua chitarra acustica e qualche mandolino mai troppo invadente, con la voce e il violino di Sara Watkins a rappresentare l’unica variazione sul tema. Resta la classe e la capacità comunque di piazzare quel paio di colpi che valgono comunque lo scomodarsi a dargli retta, ma il ricordo del potente muro del suono che erano i Grant Lee Buffalo dal vivo negli anni d’oro è ancora troppo vivo per poter accettare a cuor leggero un disco del genere.
Nicola Gervasini

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