GRANT
LEE PHILLIPS
WALKING
ON THE GREEN CORN
Magnetic Field
**
Non è facile sbagliare completamente un album
oggigiorno. Esperienza e manierismo imperano in quest’era di opere medie,
eppure ci sono ancora artisti che hanno il coraggio di provarci, e dunque di
sbagliare. Stavolta tocca a Grant Lee
Phillips, uno che a metà anni novanta dopo la strepitosa doppietta iniziale
a nome Grant lee Buffalo (Fuzzy e Mighty Joe Moon) pensavamo destinato
all’olimpo dei grandi, e che invece da allora si barcamena come può tra alti e
bassi, che, a parte qualche raro caso (l’ottimo Virginia Creeper del 2004), hanno sempre e solo fatto rimpiangere
quei due riuscitissimi album. Ultimamente con gli album Strangelet (2007) e Little
Moon (2009) si è era fatto prendere da una neanche troppo fastidiosa vena
poppish che lo rendeva leggero ma ancora gradevole visto che la voce resta
quella di un tempo, ma con questo nuovo Walking in the Green Corn Phillips
tenta una via indie-roots da cantautore triste e disturbato che non gli appare
poi troppo congeniale. A questi dieci brani manca volutamente ritmo, luce,
vita, e non basta ad animarli la poesia cercata dai testi che narrano del suo
sentirsi americano attraverso l’amore per la vita rurale (la title-track è una
sorta di dichiarazione filosofica in tal senso), qualche stoccata politica in
vista delle ormai passate elezioni statunitensi e molta descrizione del proprio
isolamento in una dimensione di copia (vive con la cantante/fotografa Denise
Siegel). Quello che un po’ spiace è proprio che sia l’insieme che non regge,
perché poi magari prese ad una ad una si scopre che The Straighten Outer potrebbe far
parte del songbook dei suoi giorni migliori, e che alcune
interpretazioni vocali che cercano non poco certe cose più intimiste di Eddie
Vedder lo attestano come uno dei migliori interpreti sulla piazza. Quello che
manca è una costruzione musicale che vada al di là della sua chitarra acustica
e qualche mandolino mai troppo invadente, con la voce e il violino di Sara Watkins a rappresentare l’unica
variazione sul tema. Resta la classe e la capacità comunque di piazzare quel
paio di colpi che valgono comunque lo scomodarsi a dargli retta, ma il ricordo
del potente muro del suono che erano i Grant Lee Buffalo dal vivo negli anni
d’oro è ancora troppo vivo per poter accettare a cuor leggero un disco del genere.
Nicola
Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento