venerdì 25 gennaio 2019

JEREMY NAIL

jeremy Nail 
Live Oak
[
Open Nine Music 2018]
jeremynail.com
 File Under: Austin after midnight

di Nicola Gervasini 
(21/11/2018)
Un disco come Live Oak di Jeremy Nail sembra quasi fatto apposta per chiedersi se davvero ancora ci sia spazio per cantautori come lui in questo mondo. E dico "spazio", perché a dire "bisogno" tradiremmo la nostra vocazione di cercatori di storie americane cantate in punta di chitarra acustica, nonostante il genere stia attraversando un momento difficile, perché se un nuovo Dylan non lo si cerca più, in questo periodo si fa a fatica a trovare anche, non dico un nuovo Ryan Adams, ma almeno un nuovo Ryan Bingham che rianimi il mercato della canzone americana. E così vi ho indirettamente già dato le coordinate di questo cantautore, che viene da Austin come parecchi nostri "eroi da Strade Blu", città dove Nail aveva provato senza successo a pubblicare un disco e un EP a fine anni zero prima di entrare nella band di Alejandro Escovedo.

Proprio il prode Alejandro lo ha poi spinto a riprovarci, producendo nel 2016 il suo album My Mountain, mentre ora Jeremy ci ritenta con questo Live Oak, che a dispetto del titolo non è una registrazione di un concerto, ma un disco fatto in studio e con anche buona produzione e attenzione ai suoni. Quali suoni? Voce bassa (Rolling Dice), acustiche in evidenza (Sea of Lights), elettriche (del bravo Jeremy Menking) che ricamano ma non invadono (Till Kingdom Come), spazzole che strisciano su casse che mai vengono pestate (So LongYesterday), pianoforti (offerti dal grande Bukka Allen) che fanno vibrare il silenzio (Other Side of Time). Il tutto per poter raccontare le sue storie, quelle di padri morti spaccandosi la schiena sui campi (Fields of Our Fathers), ma soprattutto la sua personale vicenda, quella di chi ha perso una gamba per una rara forma cancerogena, ma riesce comunque a trovare la bellezza della vita nella natura (Abiquiu).

Da qui arriva anche la vicenda della title-track, storia di una quercia secolare di Austin che venne avvelenata da un abitante apparentemente senza motivo se non ucciderla nel 1989, ma che miracolosamente ha resistito anche a questa violenza, e oggi ancora si staglia nel cielo di Austin. Simbolismo chiaro di chi si aggrappa alla vita con i denti, ma la canta con parole sussurrate e per nulla rabbiose. Il limite di Live Oak sta infatti in una eccessiva gentilezza di suoni e melodie, che rende forse questi 46 minuti poco dinamici e poco vari, ma è indubbio che il ragazzo sa scrivere canzoni, e il produttore e batterista Pat Manske sa intervenire con qualche buona idea come i fiati discreti di Hope and Fear o la bella jam quasi-acida che caratterizza Freedom's Bell, il brano centrale e forse più riuscito della raccolta. Resta in ogni caso un autore e un prodotto da strade blu secondarie, ma voi sapete bene quanto è proprio nelle backstreets che i grandi trovano le idee per le mainstreets.

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