sabato 19 gennaio 2019

KURT VILE

Kurt Vile 
Bottle It In
[
Matador/ Self 2018]
kurtvile.com
 File Under: Less isn't better

di Nicola Gervasini 
(05/11/2018)
Non so se sia davvero possibile dire qualcosa di nuovo nella canzone d'autore, ma in fondo non vedo dove stia il problema, dal momento che fortunatamente l'umanità, di cose da raccontare, ne avrà sempre, a dispetto del numero limitato di accordi con cui ci si può accompagnare. Eppure Kurt Vile è uno di quelli che ancora ci prova a rimescolare le carte, fin dai suoi esordi con i War On Drugs, e in un percorso solista che arriva con Bottle It In al settimo titolo (otto se contiamo la collaborazione con Courtney Barnett dello scorso anno). La durata di 78 minuti già fa presagire un'altra impegnativa maratona simile a quella del disco precedente (B'lieve I'm Goin Down, del 2015), che, sebbene fosse pieno di ottime canzoni, aveva un po' raffreddato gli entusiasmi su di lui (anche in termini di vendite, visto che Wakin on a Pretty Daze del 2013 era addirittura finito in Billboard USA).

Invece qui fin dall'iniziale Loading Zones sembra di respirare un'aria quasi mainstream, con un brano semplice e radiofonico, e sempre di veloce impatto sono le successive Hysteria e la cavalcata alla War On Drugs (alla fine torniamo sempre lì) di Yeah Bones. Poi però, messo a suo agio l'ascoltatore, ecco che arrivano i dieci minuti circa di Backwards, quasi un talking-blues in cui, nonostante del refrain rimanga solo un lontano miraggio, Vile riesce comunque a ipnotizzare l'attenzione. Un buon inizio che potrebbe far presagire l'arrivo del disco della maturità, ma a questo punto qualcosa si inceppa. One Trick Ponies infatti sono altri cinque minuti con lo stesso concetto di base: un unico giro di chitarra ripetuto in loop, una lunga serie di strofe quasi identiche tra loro, e la solita totale mancanza di stacchi. I tre minuti di Rollin With The Flow alleggeriscono il tutto (è una cover di Charlie Rich), fin troppo visto che il brano appare fuori contesto, ma i due episodi successivi, più di 18 minuti di durata totale, ammazzano un po' l'entusiasmo.

Non che non ci sia di che applaudire nella convulsa storia di droga di Check Baby, ma i dieci minuti e passa della title-track paiono chiedere troppo. Più che altro perché restano a quel punto ancora più di 25 minuti di disco, in cui sempre utilizzando l'espediente batterie elettroniche/giro di chitarra a ciclo continuo, si passa per una Munities dove aiuta anche l'amica Kim Gordon, una Come Again che sfrutta un riff di banjo per offrire uno dei pochissimi brani con un chorus, e una inutile Cold As A Wind, brano vintage fin dalla gracchiante registrazione, che rende solo più faticoso giungere ai dieci minuti di Skinny Minni, ancora un giro ipnotico, ancora un parlato, ancora una lunga cavalcata disturbata solo da una timida chitarra distorta.

Tutto molto bello, ma anche leggendo i testi si ha l'impressione che nella frenesia di non scrivere canzoni già scritte da altri, Vile si sia perso per strada la necessità di scriverne di nuove. Ed è un peccato, perché con la carne al fuoco che c'è in questo Bottle It In ci sono artisti che ci farebbero dieci album, ma qui si è perso il senso della misura. Persino quella che gli fa piazzare addrittura un minuto e 38 secondi di elettronica e rumori a termine del tutto, perché ad un certo punto probabilmente ha avuto paura di essersi dimenticato qualcosa. Qualcuno lo obblighi a fare un disco di 12 canzoni con un tempo massimo di 40 minuti, e forse avremo finalmente il gran disco che sappiamo Kurt è in grado di fare.

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