giovedì 21 maggio 2020

ECO-SONGS


Voci dall'aldilà XII - Joni Mitchell - AngelicASesso, droga e rock and roll, ovviamente. Poi tanti amori immensi e appassionati, corrisposti o dolorosi, persi e mai dimenticati. E ancora rabbia sociale, politica, lotte di piazza, inni generazionali o confessioni individuali: il rock è un’arte che ha affrontato una grande varietà di temi, eppure l’ecologia è un argomento che ha attraversato la storia della musica moderna in maniera molto sommessa, direi quasi marginale.  In questo scenario, la questione “green”, dopo qualche raro accenno negli anni 60 (il Jim Morrison che nel 1967 si chiedeva “cosa abbiamo fatto alla terra?” in When The Music’s Over dei Doors per esempio), ha vissuto principalmente quattro fasi. La prima, a cavallo degli anni 60/70, era permeata da un ecologismo quasi esistenziale, e il tema, nella stragrande maggioranza dei casi, era quello di un ritorno alla natura visto da un punto di vista dell’umano che recupera la sua essenza primordiale al di fuori delle nuove metropoli, viste come mostri omologatori e spersonalizzanti. Di questo parlava Paul McCartney in Mother Nature’s Son dei Beatles (1968), con toni nostalgici per la vita di campagna vissuta da ragazzo ben lontani da quelli della sua invettiva ecologista anti-trumpiana Despite Repeated Warnings, pubblicata lo scorso anno. Quello era il senso cercato anche dai Canned Heat nel celebre invito a tornare a vivere in campagna dell’era Woodstock di Going Up The Country (1968), il Cat Stevens che lamentava l’assenza di prati per i bambini in Where Do the Children Play? (1970), o il Bob Marley che raccontava del contadino trasformato in operaio depresso dal cemento in Concrete Jungle (1973). Insomma, nulla che in Italia il nostro Adriano Celentano, in questo davvero pioniere del tema, non avesse già denunciato con Il Ragazzo della Via Gluck del 1966, e ancora più chiaramente nell’Albero di Trenta Piani (1972), seguito a ruota da Lucio Battisti via-Mogol, con la sua visione della natura come rifugio dei sentimenti veri contro la corruzione della vita moderna (risentitevi Le Allettanti Promesse del 1973 in merito). Che l’impatto della modernità non facesse male solo all’uomo cominciò a rendersene conto Joni Mitchell con la celebre hit Big Yellow Taxi (1970), forse la prima vera canzone ecologista in senso moderno, dove alla cementificazione selvaggia, che era già tema più che dibattuto, lei aggiunse quello dei pesticidi (“Hey contadino, metti via quel DDT, non mi importa delle macchie sulle mie mele, lasciami gli uccelli e le api!”) e della deforestazione (“Hanno tagliato gli alberi, li hanno messi in un museo e ora chiedono alla gente di pagare un dollaro e mezzo per vederli”). Meno famoso, ma decisamente diretto, un brano dello stesso anno creato da Skip Battin e Kim Fowley per i Byrds (Hungry Planet), dove il testo, scritto in prima persona dalla pianeta Terra che si lamenta per come viene depredato selvaggiamente dall’uomo, costituì un primo interessante cambio di prospettiva. Ma furono fuochi di paglia, che preludono ad un periodo in cui la causa passò di moda, se non per qualche tema specifico come la salvaguardia delle balene che toccò Crosby & Nash (The Last Whale del 1975), gli Yes (Don’t Kill the Whale del 1978) e un preoccupato George Harrison (Save The World del 1981), o l’inquinamento dei mari che impensierì i Beach Boys (e chi altri se no?) in Don’t Go Near the Water (1971)  e i Jethro Tull che combattevano contro le compagnie petrolifere in North Sea Oil (1979) . Il che ci porta ad una seconda era dell’ecologismo-rock, quello in cui il problema divenne una delle tante voci possibili di quell’obbligo all’impegno che gli anni 80 portarono nelle tematiche della musica popolare. E così nell’era delle rockstar con la faccia da bravo ragazzo (che non si droga, o perlomeno non lo dice) alla Bono Vox, l’ecologismo diventa solo una delle tante questioni da citare, ma mai importante quanto la fame del mondo (argomento clou del decennio) o la guerra all’impoverimento da “tatcherismo” e “reaganomics” che ha caratterizzato la canzone politica dell’epoca. I Depeche Mode furono i più sensibili con uno dei primi brani che azzardava una visione apocalittica come The Landscape Is Changing (1983), ma al di là dell’impegnato Bruce Cockburn che in If a Tree Falls (1988) accennò per la prima volta alla connessione tra deforestazione dell’Amazzonia e produzione della carne, e gli australiani Midnight Oil che, osservando le terre abbandonate dagli aborigeni, intuirono per primi il problema del surriscaldamento globale nella super-hit Beds Are Burning del 1988 (non a caso registrata nel 2009 da vari artisti per una raccolta fondi contro il cambiamento climatico, e purtroppo divenuta realtà nei nostri giorni), la visione dell’ecologismo anni 80 resta però di un inquinamento figlio del totalitarismo politico e delle scelte folli dei potenti (pensate a This Is Your Land dei Simple Minds del 1989 o al terrore post-Chernobyl di Time Will Crawl del David Bowie del 1987), e non delle abitudini poco eco-sostenibili dei singoli. Per quello bisognerà aspettare gli anni 90, con la crisi economica che uccise l’ottimismo degli 80, e le prime vere prese di coscienza di un problema che coinvolge tutti. L’ecologia sarà infatti uno dei pochi argomenti sociali a interessare molta della cosiddetta X Generation, ben rappresentata dalla scena “grunge” di Seattle (ne parlano Head Down dei Soundgarden del 1994 e Do The Evolution dei Pearl Jam del 1998), ma anticipata dal loro padre spirituale Neil Young, che già nel 1990 avvertì tutti che il disastro era imminente con la sua Mother Nature. Fanno storia a sé i bellissimi album sul tema di Julian Cope (Peggy’s Suicide del 1991 e Autogeddon del 1994 i più incentrati sul tema), qualcosa di più di un folle delirio di un artista che si era calato nei panni di un druido particolarmente ossessionato dall’inquinamento causato dall’industria dell’automobile. Il cambio di paradigma di questi anni è reso ben evidente da Michael Jackson nel 1995, il cui video di Earth Song lo vede nel bel mezzo di una apocalissi ecologica in vari parti del mondo che tocca alte vette di retorica, ma resta comunque una efficace carrellata della presa di coscienza su parecchie questioni fino ad allora solo sfiorate dalla musica popolare. Arriviamo così agli anni 2000, quarta era dell’ecologismo in musica, quella dell’impegno verde che sostituisce il sempre più raro impegno politico, con l’11 settembre 2001 che annichilisce ogni lotta di piazza a causa di un nemico troppo indefinito e lontano per farci una canzone, e un mercato discografico sempre più povero e frastagliato che non ha più interesse ad arrivare a tutti solo con discorsi rassicuranti e poco scomodi. Ai Radiohead il compito di definire il passaggio alla nuova era con le tante canzoni in spirito sparse nella loro discografia, tra cui vanno almeno ricordate la hit Fake Plastic Trees del 1995, ma soprattutto la feroce Idioteque del 2000, in un nuovo secolo dove mainstream (i Cranberries di Time Is Ticking Out del 2002) e musica indie (i Grandaddy dell’album The Sophtware Slump del 2000) per la prima volta vanno a braccetto anche sui temi da trattare, tra espliciti appelli come Kyoto Now! dei Bad Religion, iniziative personali (Náttúra ad esempio è insieme una canzone e una organizzazione per l’ambiente creata da Bjork nel 2008), o nuovi temi da affrontare, come la plastica che invade i mari raccontata dai Gorillaz di Plastic Beach nel 2010. Mancano all’elenco ovviamente tante canzoni, e soprattutto certi filoni più di nicchia, come quello che vede anche il mondo hard/heavy metal in campo, sia nei 70 (le visioni apocalittiche di Nobody’s Fault degli Aerosmith del 1975, o Mama Nature’s Said dei Thin Lizzy del 1973) che negli 80 (la terrificante vendetta di Madre Natura in Total Eclipse degli Iron Maiden del 1982). Una cosa è certa, oggi nessuno scrive più una What A Wonderful World da far cantare ad un Louis Armstrong, ed è di questo che dobbiamo davvero preoccuparci.

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