venerdì 15 maggio 2020

BLACK LIPS

La leggenda Black Lips

Si narra che durante i concerti dei Black Lips si siano verificati casi di nudità sul palco, artisti intenti a vomitare e urinare, chitarre infiammate e, persino (roba inaudita) gare di macchine elettriche durante l’esibizione (!?). E non parliamo di concerti a Londra nel 1978, ma nella ben più tradizionalista Atlanta in Georgia dei primi anni 2000, ma questo armamentario base da rock debosciato degli anni 70 per i Black Lips è un passato lontano, quando, a detta del bassista Jared Swilley, la band doveva sopperire con effetti teatrali alla Alice Cooper al fatto di non aver ancora imparato bene a suonare i singoli strumenti.
Recensione: Black Lips - Sing in a World That's Falling Apart
Fire Records – 2020
Capirete quindi da dove arriva l’attitudine punk dei Black Lips, band che oggi, ormai matura e consolidata dopo otto album, continua con Sing in a World That’s Falling Apart a proporre in maniera del tutto anacronistica un country accelerato, del tutto coerente con le tradizioni americane. Negli anni 80 lo avremmo chiamato cow-punk, li avremmo visti come una versione forse meno veemente dei Jason & The Scorchers, oppure, visto che sono nati nel 1999, li avremmo visti come concorrenti degli Old 97’s.

Black Lips – Sing in a World That’s Falling Apart

Sing in a World That’s Falling Apart è un titolo che poi la dice lunga sullo spirito dell’album, un “canta che ti passa” a suon di country-songs accelerate e con tanta voglia di fare festa, senza più gli eccessi giovanili di cui dicevamo, ma con l’idea che se mai questo pazzo mondo finirà, sarebbe bello che succeda mentre si balla tutti in linea da ubriachi. Capitanati sempre da Cole Alexander, e con un nuovo chitarrista nel motore (Jeff Clarke), i Black Lips partono subito a 100 all’ora con Hooker Jon, cavalcata dylaniana che porta allo stonato pure-country di Chainsaw e addirittura alla baldanzosa ballata da line-dance di Rumbler.

Holding Me, Holding You invece rispolvera l’alt-country degli Uncle Tupelo, episodio breve che sfocia nella lunga ballad Gentleman, dove i cinque evidenziano anche un songwriting di tutto interesse e un bell’arrangiamento country-soul grazie all’uso dei fiati, con un risultato che sta dalle parti dei Rolling Stones del periodo Exile On Main Street. Get It On Time ha invece un piglio più svaccato alla Jeff Tweedy nelle sue giornate storte, ma la scanzonata Angola Rodeo riporta subito un clima di festa, prima del finale con il boom-chicka-boom alla Johnny Cash di Georgia e i riff elettrici alla Byrds di Odelia. Disco vintage nello stile e nei suoni, eppure chissà come mai così moderno nel suo ricordare che oggi la tradizione è ovunque, se è vero che anche i giovani ascoltano ad esempio Orville Peck, uno che un disco del genere lo ascolterà di sicuro.

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