Israel Nash
Topaz
(Israel
Nash, 2021)
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Wall of Nash
Dodici anni sono forse pochi per
fare resoconti di una carriera, ma Topaz, il sesto album di Israel
Nash, sembra già voler suggerire la fine di un percorso che abbiamo seguito
fin dal suo esordio del 2009 (New York Town). Quello che ai tempi ci
sembrò essere solo un buon clone di Ryan Adams, ci aveva poi ben impressionato
con il passo successivo Barn Doors and Concrete Floors del 2011, in cui
la produzione dell’ex Sonic Youth Steve Shelley aveva trovato un perfetto
equilibrio tra la struttura classica delle sue canzoni e la necessità di
dimostrare una personalità propria. Album tra i migliori del decennio scorso
per quanto ci riguarda, al quale fece seguito un comunque convincete Israel
Nash's Rain Plans nel 2013, in cui prendeva piede una certa voglia di
ripercorrere le strade di Neil Young anche nella dilatazione dei tempi. Ma a
quel punto Nash deve aver deciso di voler uscire dalla gabbia dell’immagine del
cantautore post-classic rock, e così, tagliato anche il secondo cognome usato
per firmare i suoi primi lavori (Gripka) quasi a voler ribadire una nuova
identità, ha provato a far crescere la propria musica. Israel Nash's Silver
Season del 2015 allargava gli orizzonti e i minutaggi strumentali nella
direzione di uno rock lisergico che invadeva il campo di Jonathan Wilson o dei Chris
Robinson Brotherhood, perdendo di vista però le canzoni, difetto che Lifted
del 2018 ha provato a correggere, non trovando però la perfetta quadratura,
nonostante gli abbia però portato i primi riconoscimenti anche al di fuori del
mondo della roots-music. Topaz,
album che già era stato in parte anticipato da un ep, pare invece ritrovare la strada.
Nash non è più il rauco cantautore degli esordi, e permane in queste canzoni quello stile un po’ “dark” e
levigato “alla War On Drugs” che ha fatto da padrone nelle produzioni indie più
di successo di questi ultimi anni, ma la svolta arriva dall’inserimento di una
sezione fiati nel grande magma strumentale ancora una volta proposto, che fin
dalla iniziale Dividing Lines suona non tanto come elemento di
continuità con la tradizione, quanto come un puro oggetto di disturbo, se non
proprio di rottura. L’effetto all’inizio stordisce, perché le atmosfere da
cantautore involuto di Closer o Howling Wind sembrerebbero
richiedere essenzialità, e non certo l’effetto maestoso che una sezione fiati
inevitabilmente porta ad un arrangiamento, ma questo è proprio quello che rende
speciali questo pugno di canzoni. Nash ha prodotto tutto da solo in uno studio
di registrazione in casa, in cui ha fatto stare a fatica i tanti musicisti
coinvolti a registrare in diretta, con pochissime sovra-registrazioni in
post-produzione, e ha fatto davvero le cose per bene, perché brani come Canyonheart,
Stay o Southern Coasts non perdono di vista l’importanza della
scrittura (i testi sono molto personali e pieni di dolore, anche se non si fa
mancare qualche polemica di stampo politico come in Indiana) e della
melodia, ma osano qualcosa in più in termini di arrangiamenti, con il risultato
di una sorta di wall-of sound sospeso tra rock e gospel (non mancano
anche i cori d’altronde…), che è in fondo solo l’estremizzazione di quello che
già aveva accennato così brillantemente nel suo secondo album. È probabile che
un giorno Nash sentirà nuovamente la necessità di quella semplicità del suo
ancora oggi godibilissimo esordio, ma il suo percorso pare voler aggiungere un
nuovo elemento ad ogni tappa senza mai voler rinunciare alle precedenti, e
Topaz ci sembra essere il capitolo più riuscito di questa escalation verso una sua
concezione di “rock totale” che potrebbe anche non essere finita qui.
Nicola Gervasini
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