J.
Sintoni
Backroads
(Go
Country, 2021)
File Under:
Going up the Country
Di chitarristi blues che
finiscono ad abbracciare il mondo della cosiddetta “americana” ne abbiamo visti
tanti, anche in Italia (penso a Paolo Bonfanti, per dirne uno tra i tanti), e
non fa eccezione anche il romagnolo J. Sintoni. Di fatto il suo nuovo
album Backroads, chiarificatore sul contenuto fin da titolo e copertina,
completa il passaggio già iniziato dal precedente Relief del 2017, dove
la collaborazione ormai continuativa con Grayson Capps si faceva sentire
parecchio (e complice anche la produzione dell’esperta Trina Shoemaker). Ma qui
il salto verso una visione musicale che potrebbe avvicinarlo quasi al Dave
Alvin più innamorato della tradizione, si completa, e ormai il suono è davvero
lontano da quello del suo album Better Man del 2012, immerso com’era
nella rigida grammatica del blues elettrico.
L’ossatura delle canzoni ruota
comunque ancora intorno alle sue chitarre, sebbene lui sia sempre meno portato
all’esibizione di assoli, e ad una sezione ritmica che lo vede impegnato anche
al basso, in aggiunta alla batteria di Angelica Comandini. Il disco però si
avvale anche di una serie di prestigiosi interventi che arrivano sia dalla
scena nostrana (l’armonica di Marco Pandolfi, il violino di Elisa Semprini, il
banjo di Thomas Guiducci e il piano di Gianluca Morelli), sia da qualche amico straniero
come il da noi molto seguito Buford Pope, l’ex Blue Mountain Cary Hudson, Corky
Hughes., Katrina Miller e lo svedese Rickard Alerstedt con i suoi importanti
interventi con la Pedal Steel Guitar.
Ma se le connessioni del periodo
di lockdown hanno permesso di riunire una squadra di primo livello, non sfugge
quanto il disco sia davvero un encomiabile sforzo solista di Sintoni, che canta
con anche più convinzione (e, detto nel senso positivo del termine, anche con più
“mestiere” di un tempo), e si è evidentemente concentrato nello scrivere dieci
brani più che validi che racchiudessero un po’ tutte le anime di quella musica
americana che tanto lo influenza. E così se Hope sa di puro country-rock
d’annata, When I Go Home lo riporta sui già esplorati territori di un
gospel-blues alla Capps, ma già The Lighthouse, brano lento e intenso,
fa capire quanto anche abbia velleità da autore puro. Le influenze di country
music restano comunque le più evidenti (Let’s Try To Get Lost, Country AF),
anche se il finale di Take This Song ricorda più le ballate West-Coast
anni settanta alla Jim Croce, stile che tra l’altro si adatta ancor meglio alla
sua voce.
Una volta chiesero al cantante
afroamericano Charley Pride (scomparso pochi mesi fa per il Covid-19) come si fosse
sentito ad essere il primo artista “di colore” ammesso al Grand Ole Opry di
Nashville (era il 1967), e lui rispose che il Country si era evoluto talmente
tanto che era ormai diventato una stanza abbastanza larga per farci stare tutti.
Anche in Italia ci stiamo cominciando ad entrare con sempre più consapevolezza
e rispetto, e anche Backroads si conquista il suo spazio in quella grande
stanza.
Nicola Gervasini