22/12/2008
Rootshighway
VOTO. 7,5
Secondo la teoria che la storia rende giustizia ai perdenti solo in lungo periodo, in questo ultimo decennio stiamo assistendo ad una continua riesumazione e doverosa riscoperta di un mondo musicale degli anni '80 che definire "underground" sembra quasi di ingigantirne la portata di notorietà acquisita. Chissà quanta fatica in meno avremmo fatto per capire da dove arrivano tante belle idee assimilabili al brit-folk più classico sentite in queste anni, se solo oggi fosse stato possibile scoprire l'opera decisamente all'avanguardia di gruppi come i Shelleyan Orphan. Probabilmente il loro nome se lo ricordano bene i fans dei Cure, perché all'orecchio fino di Robert Smith non sfuggì la genialità e la fabbrica di nuovo contenuta nel loro esordio Helleborine del 1987, da lui tanto apprezzato da portarseli in giro per aprire il tour di Disintegration nel 1989. Formati dal duo Caroline Crawley e Jem Tayle, gli Shelleyan Orphan pubblicarono ancora due album (Century Flower del 1989 e Humroot del 1992), prima di sciogliersi e restare un mito per pochi. We Have Everything We Need, il loro quarto album corredato con copertina shakespeariana, arriva a distanza di sedici anni per riprendersi il maltolto e riproporre lo stesso mix di tradizioni folk, orchestrazioni a metà tra il miglior Robert Kirby (il leggendario arrangiatore di Nick Drake) e musica barocca, e un approccio compositivo figlio della dark-era degli anni '80 (nella prima formazione della band militava anche il fratello di Kate Bush, giusto per rimanere nell'ambito). C'è tantissimo della musica sentita in questi anni in questo cd, da Joanna Newsom al freak-folk statunitense, e anche qualcosa di più, a giudicare dall'originale bossa-nova britannica dell'iniziale Bodysighs. La perfetta melodiosità elettro-acustica dell'emozionante How a Seed Is Sown, la ieratica religiosità della tesissima Judas, la leggerezza quasi country di Something Pulled Me: sono queste le canzoni che aprono il disco, e sembra quasi che il gruppo abbia voluto sparare subito le cartucce migliori per paura di non sembrare più all'altezza dei loro golden years. In tutte, grande evidenza ha la voce di Caroline, mentre la voce tipicamente british di Jem fa capolino nella lisergica Evolute, quasi una scampagnata dei Velvet Underground nelle green hills inglesi. Se l'evocativa Host riporta in auge sperimentalismi psichedelici d'un tempo, Your Shoes ritorna ad un folk-pop orecchiabile e decorato con una sezione d'archi decisamente à la Cure (stesso sound di fondo della loro Lullabye per intenderci). La seconda parte del cd offre meno sorprese: gli impasti vocali di I'm Glad You Didn't Jump Out Of The Car That Day o il malinconico dialogo tra orchestra e pianoforte di I May Never e Beamheart ammaliano, ma non catturano. Buono nel finale il duetto tutto scariche elettriche loureediane di Bosom, a riprova di una creatività ecletticamente disordinata che è stato davvero un peccato aver perso per così tanto tempo. Bentornati. (Nicola Gervasini)
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