mercoledì 28 gennaio 2009

WHITLEY - The Submarine


Buscadero
Gennaio 209
VOTO: 7
Ha 23 anni e viene da Melbourne Lawrence Greenwood, in arte Whitley, e il suo disco d’esordio The Submarine arriva in distribuzione sulla nostra penisola ad ormai un anno di distanza dalla sua pubblicazione. Poco male, meglio tardi che mai direbbe qualcuno, e soprattutto ben venga recuperare qualche puntata persa del fervente mondo australiano se serve ad aggiungere un altro nome importante all’ormai lunga lista di nuovi folk-singer alla Nick Drake. O probabilmente ormai, per non tirare sempre in ballo lo spirito del povero Nick, dovremmo forse parlare di seguaci di un palato predisposto alle tinte opache di un certo folk alternativo moderno, un mondo che ha in Neal Halstead dei Mojave 3 o in Bonnie Prince Billy degli ormai riconosciuti padri, in Josh Ritter il più meritevole degli adepti e in Bon Iver l’ultimo arrivato. Chi più ne ha ne metta insomma, e in questo caso un rimando stilistico preciso ce lo suggerisce lo stesso Whitley, interpretando in bella e tesa versione la splendida Mojo Pin di Jeff Buckley, raro caso di cover registrata senza troppi riguardi e genuflessioni nei confronti dell’autore. Ma già prima di arrivare alla chicca del disco eravamo passati attraverso le oblique partiture di una Cheap Clothes che si adagia tra un triste violino e il dobro del produttore Nick Huggins, e una Lost In Time che piazza subito il colpo decisivo con la sua melodia minacciosamente lieve. Whitley è giovane e alle prime armi, ma sembra maneggiare già bene l’arte di far convivere un songwriting elaborato con una certa ricerca musicale, come dimostra sicuramente il variegato arrangiamento di A Shot In The Stars, che interseca mille voci e tastiere, o una I Remember che invece si gioca tutto su un dialogo tra piano e chitarra acustica. Non sempre trova la miscela giusta magari: la stessa The Submarine sembra presagire qualcosa che non accade mai, tra sospiri, loops e sintetizzatori, chitarre e violini, tanto carburante per un motore che alla fine non parte con la dovuta potenza. Paradossalmente un difetto tipico della troppa sicurezza nei propri mezzi, quando invece sarebbe stato meglio cercare qualche spunto in più con più modestia, e soprattutto nei testi, che colgono bene le immagini evocate dalla musica, ma non riescono a risultare determinanti. Anche perché The Submarine, nonostante la sua impostazione decisamente sperimentale e la sua ricercata originalità, sta ancora dalla parte dei dischi che seguono uno stile invece di trainarlo. E ancor più paradossale è il fatto che è proprio quando si spoglia completamente di mille orpelli da sala registrazione, come nella semplice More Than Life, che Whitley dimostra di poter essere prima di tutto un autore da seguire. E ancor più nell’ottima All Is Whole, dove riaffiora nuovamente lo spirito di Buckley Jr. con il suo cimiteriale coro finale, rappresenta il momento in cui chiedi al mondo di far silenzio per poter cogliere ogni attimo e ogni sfumatura della canzone, prima che The Life I Keep mandi tutti a nanna dopo solo 31 minuti di sogni e una certa sensazione che non tutto quello che si poteva dire è stato detto. Il secondo disco dovrebbe essere già in cantiere, mentre The Submarine quest’anno ha mietuto qualche consenso di critica ma ancora troppa poca distribuzione, e il ragazzo passerà i primi mesi del 2009 a girare gli Stati Uniti in malinconico tour acustico solitario. Una vecchia storia di destini da losers che ci piace sempre raccontare (chissà perché poi…), e ci consola pure sapere che ci sono ancora giovani con la voglia di viverla così intensamente.
(Nicola Gervasini)

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