lunedì 30 marzo 2009

VARI - Born To The Breed - a Tribute To Judy Collins



Marzo 2009
Rootshighway


VOTO: 6

Dici Judy Collins e pensi al folk degli anni '60, al Greenwich Village, e ai tempi in cui la politica si faceva anche con le canzoni. Lei fu un personaggio di primo piano di quel mondo, eppure paradossalmente oggi, che la scena pullula di giovani folk-singer, raramente la cantautrice di Seattle viene citata nelle liste delle muse ispiratrici. Colpa il fatto che molti l'hanno sempre vista più come interprete che come autrice, visto soprattutto che il suo disco più famoso e acclamato (Who Knows Where The Time Goes del 1968) presentava solo un brano autografo. Oppure complice anche il fatto che lei aveva una straordinaria capacità di scoprire canzoni e autori prima di tutti, ma il grave difetto di non aver mai azzeccato la versione definitiva e più riconosciuta di nessun classico. Fu la prima a registrare Mr. Tambourine Man di Dylan, fu la prima a scoprire il songbook di Leonard Cohen e Joni Mitchell molto prima del loro esordio, e non c'è brano folk giunto nelle classifiche degli anni '60 che non conoscesse già una sua interpretazione. Non ha mai smesso di pubblicare in tutti questi anni, ma la sua resta una produzione più per nostalgici, con vari album tributo dedicati a Dylan, Cohen o ai Beatles, tutti feticci per innamorati cronici del personaggio, più che cd da consigliare.Singolare anche il fatto che per avere un disco tributo, oggetto che davvero non è stato negato a nessuno negli ultimi vent'anni, la Collins abbia dovuto provvedere in prima persona attraverso la sua etichetta, la Wildflower, già titolo di un suo album del 1967 tra i più venduti del suo catalogo. Born To The Breed suona fin dall'inizio come un omaggio al proprio datore di lavoro da parte di alcuni dipendenti ligi al dovere, ma la Collins ha coinvolto anche qualche altro nome per dare sostanza al progetto. Il disco sulla carta si presenta anche interessante, primo perché si riferisce solo alle canzoni firmate dalla Collins, che sono spesso tutte da scoprire, secondo perché il parco artisti coinvolto sembra poter accontentare davvero tutti. Ci sono vecchie compagne di battaglie (una Joan Baez che quasi le fa il verso in Since You've Asked), nuovi artisti alla moda (una melodrammatica e barocca Albatross offerta da Rufus Wainwright) o l'ultimo gioiellino di casa Wildflower (un timido Ali Eskandarian che maneggia Song For Sarajevo con troppo rispetto). C'è anche il vecchio amico Leonard Cohen, che però si limita a recitare il testo dello stesso brano già offerto da Joan Baez, alimentando una certa nostra delusione per il mancato inedito di un autore notoriamente poco prolifico. Ci sono nomi storici della musica americana, come una briosa Dolly Parton (buona la sua Fisherman's Song) o un impagliatissimo Jimmy Webb che approfitta troppo della nostra pazienza con la lunga e neniosa The Fallow Way. Oppure nomi minori, come le evanescenti Webb Sisters o un altro prodotto di casa di nome Kenny White, bravo e richiesto pianista (recentemente lo abbiamo sentito in azione con i Mystix) e produttore visto al lavoro con Shawn Colvin, Peter Wolf e Marc Cohn. Ed è proprio Shawn Colvin ad aprire le danze con una convenzionale Secret Gardens, così come non si impegna più di tanto Jim Lauderdale con i suoi Dream Players (con Gary Tallent e Al Perkins in formazione) a rileggere Easy Times. Sorprese positive arrivano da una Chrissie Hynde a suo agio nella piano-song My Father o la promettente Amy Speace, nome che abbiamo notato di recente con The Killer in Me, qui alle prese con una countreggiante Born To The Breed. Francamente da dimenticare (o perlomeno troppo fuori contesto) i sette minuti della Che offerta dal vocalist dei Puressence James Mudriczki, figlio della scena techno di Manchester, o anche la detestabile Trust Your Heart enfatizzata da Bernardette Peters, star di Broadway con voce alla Barbra Streisand. La Collins ha fatto dunque un regalo più a sé stessa che a noi, ben curando anche la confezione e il libretto completo di testi e note, ma ottenendo in cambio solo una serie di compitini svolti senza troppa passione, e finendo solo per ricordare a tutti come mai fino ad oggi nessuno aveva ancora promosso una simile operazione: semplicemente perché forse non ce n'era poi così bisogno. (Nicola Gervasini)


http://www.judycollins.com/http://www.wildflowerrecords.com/


LA SCALETTA 1. Since You've Asked - Joan Baez 2. Easy Times - Jim Lauderdale 3. The Fisherman Song - Dolly Parton 4. My Father - Chrissie Hynde 5. Secret Gardens - Shawn Colvin 6. Song for Martin - Kenny White 7. Born to the Breed - Amy Speace 8. Albatross - Rufus Wainwright 9. Fortune of Soldiers - The Webb Sisters 10. The Fallow Way - Jimmy Webb 11. Trust Your Heart - Bernadette Peters 12. Holly Ann - The Weaver Song - Dar Williams 13. Song for Sarajevo - Ali Eskandarian 14. Che - James Mudriczki (of Puressence) 15. Since You've Asked - Leonard Cohen Reprise: Spoken Word)

giovedì 26 marzo 2009

CHIRIS LATERZO and Buffalo Robe - Juniper and Piñon


16/03/2008
Rootshighway
VOTO: 6
Irriducibile artigiano della canzone d'autore e seguace mai pentito del cantautorato anni 70, zona West Coast, il californiano Chris Laterzo macina chilometri da più di dieci anni e da sempre mangia la polvere della caparbia autoproduzione. Juniper And Piñon è il quarto disco di una carriera discografica iniziata nel 1997 con l'album American River e già transitata nelle nostre pagine con il precedente Driftwood. Il nuovo disco non cambia le carte in tavola: il poster di Neil Young è sempre lì, appeso alla parete, Chris lo pensa intensamente nel modo di cantare ma ancor più nei ritmi delle canzoni (l'iniziale Hacienda è 100% puro Young), tanto che quando si arriva alla title-track, si passa il tempo a chiedersi se assomiglia più ad Harvest per il suono della pedal steel o ad Harvest Moon per il giro di accordi davvero simile della chitarra acustica. Oppure quando Chris rinuncia alla band per camminare da solo in Peculiar Fate, ecco tornare alla mente gli episodi acustici più devastati di album come On The Beach o Tonight's The Night, apparenti stonature comprese. Peccato, perché ad esempio la stessa Juniper And Piñon ha la sua storia da raccontare, come anche brani tra l'acustico e l'elettrico che non trovano una connotazione precisa come Red Dust e Those Were The Days. Anche quando i Crazy Horse…ehm, scusate,…i Buffalo Robe intervengono con elettriche spianate come accade in Misfit Child, si apprezza il suono e una bella canzone, ma quando Laterzo ci canta dell'Aurora Borealis, alla fine ci si chiede da quanto tempo non mettiamo nel lettore Rust Never Sleeps con la sua Pocahontas e quella Powderfinger che il brano sembra voler ricalcare. Insomma avete capito l'antifona: Laterzo sta a Neil Young come Joe D'Urso a Bruce Springsteen: ammira, imita, omaggia, ma più in là non si va neanche in questo caso. A voi la scelta se seguire anche questi sogni cromati taroccati o cercare nuove personalità, a noi il compito di assicurarvi che al di là della derivatività della proposta, il disco è ben realizzato e le canzoni scorrono bene senza troppi intoppi, e che quando non si incappa in Neil Young, si può avere la fortuna di incrociare una Woman (After All These Years) che ricorda i momenti teneri tra Gram Parsons e Emmylou Harris (la sua Emmylou si chiama Laurie LeGore), oppure in una piacevole cover della Holiday Inn dell'Elton John più rootsofilo di inizio carriera. E magari potremmo anche affilare il coltello ed evidenziare che è vero che Laterzo è un clone minore di qualcun altro, ma è anche vero che quel qualcun altro più grande di lui una canzone come Crowded House Blues, con la sua satira sulle comunità aperte californiane, è un po' di tempo che non la trova più. Ma a Laterzo non interessa vincere una singola battaglia, Juniper And Piñon è solo una celebrazione di un suono e di uno stile. Non chiediamogli di più.(Nicola Gervasini)

venerdì 20 marzo 2009

ROBYN HITCHCOCK & VENUS 3 - Goodnight Oslo


20/02/2009
Rootshighway

VOTO: 8


Uguale a nessun'altro, ma sempre identico a sé stesso, questo è Robyn Hitchcock dopo più di trent'anni di carriera. Un eterno bambino del pop psichedelico inglese e un uomo che (sono parole sue) non si è mai ben inserito nella società moderna. La sua musica negli anni ottanta è stata sublime e importante, ma questo non l'ha mai fatto uscire dal rango di cult-artist, uno di quei nomi incapaci di fare il botto con il capolavoro universalmente riconosciuto, ma anche di produrre un brutto disco. O lo si ama o lo si ignora Hitchcock, sia quando dimostra di essere il miglior figlio illegittimo di Syd Barrett, sia negli ultimi anni, in cui ha (ri)scoperto Dylan e si è innamorato della musica roots americana.

Un matrimonio a noi gradito, ma che nascondeva però una certa perdita della sua vera identità. Goodnight Oslo riporta tutto alla perfezione di un tempo: è un disco di Hitchcock al 100%, per certi versi riconducibile ad un Globe Of Frogs o ad un Queen Elvis come stile e ispirazione (Your Head Here sta da quelle parti). E sulla strada si recupera anche la proficua collaborazione con Peter Buck dei R.E.M., che con Scott McCaughey (con cui Buck ha dato vita con Steve Wynn ai Baseball Project) e Bill Rieflin, formano questa nuova edizione dei Venus 3. Non che gli ultimi lavori (per lo meno Spooked e Olè Tarantula) fossero quelli di un artista in crisi, ma qui torna finalmente il genietto che con poche canzoni ti gettava in un mondo tutto suo, fatto di fiabe disarmoniche, mostri incoerenti e visioni grottesche. Torna l'uomo che meglio utilizza gli splendidi arpeggi di un Buck anche lui con la lancetta del tempo volta all'indietro, sempre utile per confezionare perfette pop-songs visionarie come I'm Falling, marcette da White Album come Saturdays Groovers o quelle acide nenie con voce bassa che ce lo fanno amare da sempre (16 Years).

Le escursioni nella tradizione americana non sono state però gettate al vento, solo adesso sembra che lo scolaro abbia finito le ripetizioni e sappia maneggiare e plasmare la materia a suo piacimento. Così il disco si apre con una What You Is che inizia come la farebbe iniziare un John Fogerty e continua passeggiando sui versi di Gotta Serve Somebody di Dylan. Oppure Hurry For The Sky, cavalcata quasi country che fa sfoggio di slide guitars nelle casse e cactus nelle suggestioni, o la stralunata Up To Our Necks, concepita con il pensiero rivolto ad una mariachi-band tra fiati, mandolini e distorsioni varie. I testi hanno come al solito un senso intraducibile, pena la perdita di quei giochi delle parole che si muovono in uno spazio concettuale che si governa con logiche diverse dalle nostre. L'unico modo per stare al passo è lasciarsi andare alle sue dinamiche perverse, come quelle del rapporto uomo-donna raccontato in Intricate Thing, nella mattonella allucinata di TLC. o nei sei minuti di Goodnight Oslo. Le nuove generazioni di folksinger allucinati si siedano e prendano appunti prego…
(Nicola Gervasini)

lunedì 16 marzo 2009

WES CHARLTON - World On Fire


Buscadero

Marzo 2009
VOTO: 6
Ci si scandalizza giustamente quando si legge che le nuove leve canore si scovano organizzando gare in programmi televisivi o reality show, eppure ci dimentichiamo che a Nashville da quattordici anni si organizza l’International Songwriting Competition, un contest di tutto rispetto che assegna premi a musicisti amatoriali, dividendoli in categorie di genere. Gara seria questa però, a partire dalle giurie, con nomi altisonanti impegnati a selezionare: per le sezioni di nostro interesse tra i giudici figurano Tom Waits e Ray Davies dei Kinks, per la musica country garantisce Loretta Lynn, per il blues John Mayall e James Cotton, dei nuovi jazzisti si occupano McCoy Tyner e John Scofield e così via. Wes Charlton però sono ormai cinque anni che nei comunicati stampa ricorda che nel 2004 è stato uno dei semifinalisti della competizione, una credenziale che aveva creato anche un certo interesse per il suo disco di esordio del 2005 intitolato AmericanBitterSweet. Ci ha messo quattro anni Wes per riordinare le idee e mettere insieme questo World On Fire, il fatidico secondo album che riesce pubblicare grazie all’interessamento di Judy Collins e della sua etichetta Wildflower. Una label questa che l’anno scorso ha azzeccato la promozione di un giovane interessante come Ali Eskanderian, e che ora ci ritenta anche con lui. Wes è un artista che qui dimostra sicuramente di avere la stoffa di autore e di essere folk singer sicuramente interessante, pur avendo nella voce, un po’ sforzata e soffocata, il proprio punto debole su cui lavorare in futuro per trovare un proprio timbro personale. In studio si fa aiutare dell’amico e co-produttore Cliff Gray, uomo con qualche passione di troppo per le tastiere e per i suoni di piano un po’ posticci, ma indubbiamente arrangiatore fantasioso e con tendenze a riempire il più possibile gli spazi con suoni e percussioni piuttosto che lasciare angoscianti vuoti. Si parte con l’acustica e tagliente Daytime Blues, brano che si piazza dalle parti del Ryan Adams più strascicato, e che ci accomoda preparati a qualche altra intima confessione, quando invece si viene poi travolti dalle elettriche che impazziscono di Still Here, poco più di due minuti di spigoloso rock urbano che cerca il Jesse Malin più scaltro, per trovare molta carica, ma anche molta confusione. Red Eyes, Blue Lights cerca il romantico con un bel violino a commento, e lo trova molto meglio del successivo teenage-rock di Jenny X-17, strano up-tempo tra chitarre anche molto mainstream e il banjo di Conor Lynch a battere il tempo. Più centrata Black Alice, volutamente sgangherata e zoppicante, come la storia raccontata nel testo, mentre TV Girl cerca la ballata epica e scade un po’ nello scontato, ma rimane pur sempre uno di quei brani da tipico songwriter americano che riempiono quotidianamente i nostri stereo. Con la successiva Southern Comfort Charlton cerca la scarna e sofferente ballata acustica alla Matthew Ryan, senza però riuscire a eguagliarne classe e struggimento. Il banjo, che bene o male regna sovrano nella struttura di quasi tutte le canzoni, riapre la danze con una Before I Die che prosegue la strada malinconica intrapresa dal disco, mente un piano a noi noto apre The Wait, quasi 8 minuti di un giro che si rivelerà essere quello che sembra fin dall’inizio, vale a dire una sorta di riscrittura, fatta più per passione che per plagio, di The Weight della Band. Bello il finale di Change Will Come, acoustic-song senza troppi orpelli, se non un po’ di suoni d’atmosfera, che dimostra come Charlton dovrebbe puntare più sulla forza delle sue canzoni, perlomeno finché non trova anche uno stile definitivo da cucirsi addosso. (Nicola Gervasini)

sabato 14 marzo 2009

THE HEARTLESS BASTARDS - The Mountain


27/02/2009
Rootshighway


VOTO: 7



Restano sempre bastardi (nel suono ovviamente...), ma stavolta con un pizzico di cuore in più. E' questa l'evoluzione voluta da Erika Wennerstrom, l'allucinata voce degli Heartless Bastards, all'indomani di un forte rimpasto della formazione e della pubblicazione del loro terzo disco The Mountain. Li avevamo conosciuti in occasione del loro esordio Stairs and Elevators nel 2005, rumoroso blocco elettrico di garage-rock moderno alla Black Keys, doppiato dal meno interessante All This Time nel 2006. Destinati a perdersi nella memoria degli adepti raccolti nei due anni di attività, gli Heartless Bastards rinascono dopo tre anni e intraprendono a sorpresa una strada che potrebbe anche rivelarsi vincente in futuro prossimo. Innanzitutto la Wennerstrom ha licenziato la vecchia sezione ritmica per adottare i suoni più morbidi di Billy White e Doni Schroeder, ma ancor più intelligentemente ha smesso di sobbarcarsi tutte le parti di chitarra, integrando la band con ben due chitarristi (Marc Nathan e Willie Rhodes). Nomi poco noti, ma di provenienza decisamente roots-oriented, che portano in dotazione al nuovo sound un campionario composto di banjo, mandolini, violini, pedal steel guitar.

Il risultato è convincente, con la Wennerstrom che smette di atteggiarsi a piccola PJ Harvey dei giorni nostri e cerca un suo stile personale nel cantare, sempre molto impostato e declamatorio, ma che ben si mischia alla nuova linea sonora. La ragazza sembra aver ascoltato cosa offre il nuovo mondo musicale, ha sicuramente incamerato sia il tentativo di cross-over tra hard e tradizione dei Black Mountain, sia il nuovo country alternativo dei Blanche, e il risultato finale fa sicuramente di originalità virtù. The Mountain inizia con la title-track e il suo riff alla Crazy Horse, ma già alla seconda canzone arriva il primo shock per i vecchi fans, una Could Be So Happy che toglie completamente la spina alle elettriche e si lancia in una girandola di folk tradizionale. Ma è il rock d'altri tempi di Early In The Morning a decretare la maturazione della band: tiro da rock west-coast anni 60, con Erika nei panni di una novella Grace Slick, e una capacità di maneggiare il verbo classico che è solo di chi ormai ha calcato i palchi da molti anni.

Non cerca vie nuove neanche la ballatona rock-soul Hold Your Head High, mentre Out At Sea torna a indagare il suono secco e diretto dell'underground sixties. E via così fino alla fine, tra tentazioni psichedeliche e forti tendenze reazionarie, esattamente il mood arrivato in dote con il bravo produttore Mike McCarthy, uomo in grado di passare dagli Spoon a Patty Griffin come se fossero fatti della stessa pasta, che ha portato tutti ad Austin, in Texas a sporcare il suono con l'aria del luogo. The Mountain resta volutamente in bilico tra la voglia di lasciarsi andare a docili folk-songs (So Quiet, Had To Go) o a pseudo-blues strascicati (Witchypoo) e distorte schitarrate da bassifondi (Sway). Giusto i fondamentali per ripartire con il piede giusto.
(Nicola Gervasini)


venerdì 6 marzo 2009

KENSINGTON HILLBILLYS - Tecumseh


23/02/2009
Rootshighway
VOTO: 6



Nome di quelli che tradiscono immediatamente stile e inclinazione quello dei Kensington Hillbillys, ensemble canadese proveniente da Toronto, giunto con questo Tecumseh al terzo album. Storia che parte da lontano la loro: nati nel 1996 come cover-band di classici country, trasformati in gruppo d'accompagnamento per le mire soliste del cantante (e autore di tutti i brani) Steve Ketchen, hanno realizzato il primo disco (Steve Ketchen & The Kensington Hillbillys) nel 2001, un album infarcito di cliché country&western, a cui ha fatto seguito Bones In The Backyard. Da sempre orbitanti nell'area di influenza dei Blue Rodeo, con cui nel tempo hanno condiviso anche membri, palchi e idee, Steve Ketchen (voce e chitarre), Mikey McCallum (chitarre, rigorosamente Telecaster), Lucky Pete Lambert (batteria), Greg Sweetland (basso) e Stew Crookes (chitarre e pedal steel) ora si presentano solo con il nome della band per sottolineare quanto questo Tecumseh sia il frutto di uno sforzo collettivo.

Non li scopriamo oggi in verità, nel 2004 li avevamo già notati per una spumeggiante versione di Straight To Hell dei Clash contenuta nella bella raccolta Start Your Own Country della britannica Loose Music, ma per ora gli anni e la tanta strada percorsa non sono bastati a farli uscire dal circuito indipendente. Le parentele con i Blue Rodeo sono fortissime, seppur con meno inclinazione alla melodia, e sono particolarmente evidenti negli episodi più tipicamente country del disco come Cowboys e Melody So Divine, ma alla band piace molto variare mischiando il meglio del dark-country moderno (si senta la black ballad Even The Good Times Are Bad), immaginari polverosi alla Giant Sand (Shadow Of A Doubt) e scalcagnate bar-songs (Turn Around Again, che potrebbe stare dalle parti degli Say ZuZu).

Tecumseh è un disco breve e diretto, la band non ha grosse pretese se non quelle di omaggiare la scena roots con una ricetta che prevede tutto l'occorrente in materia, compresa l'immancabile canzone da vita "on the road" (Highway Of Life, vale a dire il paradiso della Fender Stratocaster), la zoppicante country-song da locale di terza categoria (Lonely at The Bottom) e la triste porch-song (It Won't Be Pretty). Il finale si consuma tra voglie di suoni del Texas (Tiny Mine) e il sequel di Cowboys, intitolato ovviamente Indians, mentre The Edge si segnala come l'unico slancio oltre la media del songwritng di Ketchen. Tecumseh è un divertissement per appassionati di genere, senza molta storia se non quella che scriverebbero sicuramente meglio loro stessi versando anche il doveroso sudore sul palco. Consigliato solo per quei momenti di sana attitudine reazionaria che ogni tanto prende sicuramente i nostri lettori...
(Nicola Gervasini)

domenica 1 marzo 2009

RODNEY CROWELL - Voilà An American Dream





"Scrivere canzoni è una cosa misteriosa: a volte si scrive senza una ragione, a volte scrivi fino a che fa male, a volte scrivi per vendetta, ma è solo un cercare la verità. A volte tutto quello che serve è uno sparo nel buio per poter vedere la luce…". (Guy Clark, note di copertina dell'album Diamonds & Dirt di Rodney Crowell)

a cura di Nicola Gervasini

:: Il ritratto


"C'era una volta una città magica, piena di una musica che si poteva sentire ovunque, nelle strade, nei bar, nelle radio. E in quella città i musicisti erano divinità, retti esempi della stessa "good way of life" cantata in quelle dolci e disincantate canzoni, fatte di storie di famiglia, lavoro e amore per la propria terra. Ma un giorno successe qualcosa di brutto: uno di quei cantanti divenne mito, cantò di depressione, violenza e sbronze esistenziali, e morì da esiliato. La città magica lo pianse tirando un sospiro di sollievo, ma la miccia era accesa, e dopo di lui vennero una serie di fuorilegge che misero a ferro e a fuoco la città. I vecchi potenti della città si difesero cercando di addomesticare i riottosi, coinvolgendoli il più possibile nei propri progetti fatti di sicurezza e tradizione, ma serviva che fosse un giovane a riportare tutti sulla retta via. Così venne Lui, e li mise d'accordo tutti, i vecchi con i giovani, i tradizionalisti con i fuorilegge, i reazionari con i rivoluzionari, sposò la figlia del capo dei cattivi e la portò dalla parte dei buoni. La città lo ringraziò, ma, risolto il problema, gli voltò subito le spalle, e si dimenticò prestò del nuovo eroe; il quale, deluso e abbandonato, scappò, tornando anni dopo solo per cantare la corruzione e la falsità di quella città, che rimase, nonostante tutto, sempre e comunque magica…"
Sembra la favola del Pifferaio di Hamlin, invece è (con parecchie licenze poetiche) la storia di Rodney Crowell. La vita dell'uomo che salvò Nashville inizia il 7 agosto 1950 a Houston in Texas, ma la sua storia artistica inizia nel 1972 con un gruppo locale chiamato The Arbitrators. E' in quegli anni che stringe una forte amicizia con due suoi eroi, Guy Clark e Townes Van Zandt, ed è proprio per seguire i due che Rodney approda a Nashville, la Mecca della country-music, la città magica dove cercare la giusta occasione. La prima gliela regala il chitarrista Jerry Reed (scomparso recentemente), mito locale che lo assume come autore per la sua società di pubblicazioni. Ma la vera occasione arriva quando Rodney incontra Emmylou Harris, giovane promessa pronta a sbocciare dopo la morte del suo mentore Gram Parsons. La Harris lo imbarca subito come chitarrista nella seminale avventura della sua Hot Band e ne sfrutta fin da subito le doti di autore, incidendo per prima molti suoi brani come Amarillo, Till I Gain Control, Tulsa Queen, e I Ain't Livin' Long Like This. Forte della notorietà acquisita al fianco di Emmylou, Crowell prova il gran passo, prima fondando con Vince Gill un estemporaneo gruppo di giovani promesse (i Cherry Bombs, che pubblicheranno un unico album nel 2004 in pieno clima nostalgico), e poi firmando per la Warner Bros un contratto a proprio nome. Le sue doti di songwriter e musicista sono ormai riconosciute da tutti, tanto che nel 1979 è nientemeno che Rosanne Cash, la figlia di Johnny, a chiamarlo a scrivere e produrre il suo album di debutto Right Or Wrong (che uscirà solo nel 1980), un matrimonio artistico talmente ben riuscito, da diventare nozze effettive anche nella vita. Nonostante le ottime premesse però, la carriera solista di Crowell non prende quota: il primo ottimo disco vende appena 20.000 copie, il secondo riesce appena a piazzare il singolo Ashes By Now al trentasettesimo posto delle country-charts, mentre il terzo disco del 1981 sparisce presto dagli scaffali.
La sua carriera di fatto era partita fuori tempo massimo: la Nashville che aveva sognato stava lentamente scomparendo, molti eroi degli anni 70 come Willie Nelson (e la stessa Emmylou Harris) vennero a patti con le esigenze dell'industria discografica per rimanere a galla negli anni 80, qualcuno provò a navigare da solo (John Prine), molti altri scomparirono dalla scena (Lee Clayton e molti altri). In questo scenario di sconfitta per il cosiddetto country d'autore, Crowell salvò la pelle grazie alla sua attività di autore, e mentre i suoi dischi prendevano polvere nei negozi, i suoi brani devastavano le charts grazie ad altri artisti. Gli Oak Ridge Boys con Leavin' Louisiana In The Broad Daylight, Crystal Gale con Till I Gain Control Again, Bob Seger con Shame on the Moon sono solo alcune dei numeri uno di Billboard firmati Crowell nei primi anni '80. Ma il decennio fu difficile: il matrimonio con Rosanne cominciò a deragliare nelle droghe e nell'alcool, mentre la Warner Bros nel 1984 rifiutò di pubblicare l'album Street Language perché non in linea con le richieste del mercato (il titolo vide la luce solo nel 1986 grazie alla Columbia). Le cose ricominciarono a girare bene solo nel 1987, prima grazie al successo dell'album di Rosanne Cash, King's Record Shop, da lui prodotto, e poi con il clamoroso botto commerciale del suo Diamonds & Dirt, il disco che salvò letteralmente Nashville. Forte di un successo che lo vedeva per la prima volta protagonista in prima persona, Crowell tentò di portare avanti un suo discorso di country-pop d'autore con convinzione e (finalmente) anche mezzi, ma ancora una volta Nashville fagocitò le sue speranze, inebriata da un rilancio commerciale i cui frutti furono poi raccolti da una nuova generazione di giovani country-singers dalle vendite a dir poco vertiginose. Così mentre Garth Brooks diventava l'artista più venduto di sempre pubblicando dischetti pensati spremendo Diamonds & Dirt fino al midollo e rilevandone solo il lato più radiofonico, a metà anni 90 Crowell era di nuovo un reietto abbandonato dall'industria discografica e dalla moglie Rosanne (divorzio ufficiale nel 1991).
Tornerà in alto negli anni 2000, con una produzione di gran livello e la libertà di cantare la sua città con nuove parole, dure e taglienti come quelle degli innamorati respinti.Tipico personaggio da dietro le quinte dello show-business, Crowell ha rappresentato l'ala destra del movimento dei neo-tradizionalisti di fine anni '80, impersonando il link mancante tra la tradizione pura e la generazione dei nuovi fuorilegge nashvilliani (Steve Earle, Dwight Yoakam…). Sul suo nome si registrano attestazioni di stima da entrambe le parti, e forse è a causa di questo suo essere sempre in mezzo al guado che il suo non è mai stato nome di culto, oltre che per quel suo stile pulito e da bravo ragazzo che lo ha reso sempre carente di fascino da rockstar. Nella sua carriera ha fatto dischi importanti e anche molto influenti, ma gli è forse mancato il capolavoro universalmente riconosciuto per poter essere annoverato tra i numeri uno. Ed è forse proprio perché la sua firma è stata più decisiva della sua opera che quest'ultima merita di essere riascoltata e ripensata sotto una nuova luce.

:: Il capolavoro

Ain't Living Long Like This
[Warner Bros. 1977]
1. Elvira // 2. (Now And Then There's) A Fool Such As I // 3. Leaving Louisiana In The Broad Daylight // 4. Voila, An American Dream // 5. I Ain't Living Long Like This // 6. Baby, Better Start Turnin' Em Down // 7. Song For The Life // 8. I Thought I Heard You Callin' My Name // 9. California Earthquake (A Whole Lotta Shakin' Goin' On)

Ain't Livin' Long Like This, o anche "quello che sarebbe stata la musica di Rodney Crowell se fosse nato dieci anni prima", è insieme a The Houston Kid il disco migliore e generalmente più consigliato della sua opera. Non è il più rappresentativo in verità, perché lo stile da vero country-outlaw evidenziato da questo esordio rimarrà un caso unico nella sua discografia. I riferimenti più evidenti qui erano Gram Parsons e Guy Clark, ma dal punto di vista produttivo il disco si allineava all'opera contemporanea di John Prine e Lee Clayton, vale a dire quella parte di Nashville che stava cercando una via che unisse la tradizione bianca al soul nero (evidente nei fiati della title-track) o a certe ruvidezze del rock. A dispetto della sua fama d'autore, il disco parte alla leggera con due cover che vennero anche presentate come singolo, una scoppiettante Elvira del mitico country-songwriter Dallas Frazier e una Fool Such As I in versione da porch-song che sarebbe sicuramente piaciuta all'appena scomparso Elvis Presley. Ma il viaggio nella fine del sogno americano era guidato dalle sue storie, tutte incentrate sul tema della fuga, come quella di Mary che segue un fuorilegge senza speranza nella calda e inospitale Louisiana (Leaving Louisiana in the Broadlight), quella della mente sulle spiagge della Giamaica (Voilà An American Dream, con versi ben eloquenti come "sento che una vacanza tropicale possa essere l'unica risposta a questa birra Hillbilly"), quella dalla prigione del fuorilegge braccato della title-track o quella amarissima dalla realtà che uccide la libera espressione (Baby, Better Start To Turnin'em Down). L'uomo dalla ballata facile usciva già allo scoperto con la dolcissima Song For The Life, brano tra i suoi più rivisitati, e dopo una terza cover (I Heard You Callin' My Name di Lee Emerson, forse l'episodio più old-style), il disco si chiudeva con i sensazionali sei minuti di California Earthquake (Whole Lotta Shakin Goin'On), che dietro il secondo omaggio al rock and roll, celava un racconto degno di John Steinbeck del grande terremoto californiano del 1883 e dell'epopea della povera gente costretta a ricostruire una vita sulle macerie di un sogno. Un'immagine devastante di una società americana allo sbando nel momento di dimostrare solidarietà e prontezza davanti alle tragedie, una storia che la recente alluvione di New Orleans ha dimostrato non essere evidentemente stata raccontata ancora abbastanza, e che lo stesso Crowell non avrà più la capacità di raccontare con uguale crudezza fino agli anni 2000.

:: Dischi essenziali


Diamonds & Dirt
[Columbia/ Legacy 1988]
Esiste un'intera generazione di appassionati di musica che ha scoperto Rodney Crowell con questo album…e se ne è fatto inevitabilmente un'idea distorta. Veniamo ai fatti: nel 1988 era (discutibile) opinione comune che Nashville fosse una bella addormentata che partoriva zuccherosi singoli esclusivamente per le proprie classifiche. Vero era che in quegli anni la parola "country" faceva quasi orrore alle giovani generazioni di ascoltatori, ma le cose cominciarono a cambiare nel 1986, quando la città fu invasa da una nuova generazione di artisti (che vennero bollati come "neo-tradizionalisti") che parlavano un idioma musicale più moderno e "young-friendly". In questo clima di guerra civile tra vecchi appagati e giovani ribelli arrivò questo disco come un fulmine a ciel sereno. Crowell sfruttò le proprie buone credenziali presso le case discografiche per registrarlo in piena libertà e con i musicisti a lui più consoni, in cambio consegnò un bestseller che arrivò fino all'ottavo posto delle classifiche di Billboard e, fatto ancora oggi imbattuto nel libro dei record, 5 singoli autografi tratti dallo stesso album tutti al primo posto. Il segreto di questo improvviso successo fu la "mediazione perfetta" sottoforma di 10 country-pop-songs pulite e perfette come da tradizione, ma suonate con la grinta e la strafottenza dei nuovi monelli nashvilliani. Diamonds & Dirt piacque a tutti, il duetto con la moglie Rosanne di It's Such A Small World era rassicurante quanto la melodia di She's Crazy For Leavin' inevitabilmente contagiosa, Crazy Baby e I Know You're Married baldanzose e sbruffone quanto After All This Time e The Last Waltz malinconiche e ispirate. Se per il pubblico europeo Crowell rimarrà sempre "troppo country" e per quello americano sempre troppo poco, sarà sempre "colpa" di questo disco che suona ancora oggi fresco ed elettrizzante nella sua perfetta essenzialità.


The Cicadas
[Warner, 1997]
Chi nel 2001 si sorprese per la svolta di The Houston Kid semplicemente era uno dei tanti (praticamente tutti) che avevano ignorato questo side-project uscito in sordina e presto scomparso dalla circolazione (è stato finalmente ristampato nel 2007). Dietro l'effimera sigla di una band si celava un Crowell quasi desideroso di nascondere le proprie intenzioni, ma questo disco è suo al 100%, anche se l'apporto degli ottimi comprimari e collaboratori di lunga data (Steuart Smith -chitarre e co-produttore, Michael Rhodes - basso e Vince Santoro - batteria) fu decisivo nel creare un nuovo sound fieramente rock-oriented. Chitarre affilate, batterie decise e un piglio energico evidenziato in due cover da suonare ad alto volume come una Tobacco Road in chiave quasi Hendrixiana e una Blonde Ambition che respira puro blue-collar rock da bar. Da altri lidi arriva anche la splendida Wish You Were Her, brano co-firmato da Bono degli U2 con T-Bone Burnett nel lontano 1985, mentre significativo è l'attacco del disco di When Losers Rule The World, inno ai perdenti scritto con uno specialista in materia come Ben Vaughn. La voglia di altri suoni lo porta ad una We Want Everything che sembra un brano sfuggito al Tom Petty di Wildflower, una Our Little Town che cementa ancora una volta l'amicizia artistica con il co-autore Guy Clark e altri brani decisamente interessanti come Nothing (cantata con il suo discepolo più meritevole Jim Lauderdale) e Through The Past. Il capolavoro arriva alla fine, con i sei minuti di Still Learning How To Fly, epica ed enfatica al punto giusto. Disco fuori dal tempo, The Cicadas non venne preso sul serio e fu considerato una scampagnata di un autore in cerca di una nuova ragione di essere, quando invece era l'inizio di una maturità che darà ottimi frutti.

The Houston Kid
[Sugar Hill, 2001]
Sembra davvero una favola: la fuga da Nashville, il silenzio e l'oblio, e poi il ritorno con il disco cercato per una vita. The Houston Kid è l'autobiografia di Crowell, raccontata attraverso piccole istantanee della sua fanciullezza a Houston. Un'infanzia non certo spensierata: Rock Of My Soul racconta la storia di un padre che abusa di madre e figlio, I Wish It Would Rain affronta i sensi di colpa per come da ragazzino abbia evitato un vicino di casa malato di AIDS, Wandering Boy è una dedica non proprio serena a tutti gli amici di un tempo, mentre Telephone Road sfiora la letteratura con i ricordi di bagni, giri in motoretta e gelati comprati con soldi grattati qui e là. Su tutto il disco aleggia pesante lo spirito della famiglia Cash: Rodney prova a riconciliarsi a suo modo dedicando alla ex moglie Rosanne l'arrabbiata U Don't Know How Much I Hate You, serie di recriminazioni per un amore mal risolto, ma anche la confessione di quanto oggi si senta solo senza la compagna di mille avventure. Piena riconciliazione invece con l'ex suocero Johnny Cash, prima evocato in Telephone Road, e poi direttamente omaggiato in Walk The Line (Revisited). Pare che Johnny rimproverasse sempre a Rodney di suonare dal vivo la sua canzone con il ritmo sbagliato, così lui pensò bene di terminare la discussione scrivendo un racconto sulla prima volta che sentì il brano alla radio e lasciando a Johnny l'onore di intervenire cantando il brano originale (nel video Cash appare in un filmato d'epoca come un flashback). Ma la vera riconciliazione Crowell la trovò con sè stesso nel suono del disco, perfetto punto di incrocio tra il country più classico, il folk e il rock, esattamente quello che cercava da tempo e che solo accasandosi nell'indipendente Sugar Hill (la stessa etichetta che ha salvato la carriera a Guy Clark…) ha potuto realizzare senza condizionamenti. The Houston Kid non è solo il disco della sua maturità, ma è anche il punto di partenza di una nuova carriera, l'inizio di un sentiero che Rodney avrebbe volentieri percorso fin dal 1977.

Fate's Right Hand
[DMZ/Epic, 2003]
Presa la mano, Crowell realizza un altro disco imprescindibile con Fate's Right Hand. Caratterizzato da toni ancora più introspettivi e da un sound elettro-acustico perfettamente prodotto (lo aiuta stavolta il vecchio Pete Coleman) e mai banale, il disco testimonia la ritrovata convinzione nei propri mezzi. La partenza ribadisce la bontà del dimenticato disco dei Cicadas ripescando Learning How To Fly, probabilmente il brano che meglio descrive la storia di un artista dalla lenta e dolorosa maturazione, e soprattutto la raggiunta consapevolezza di essere uno strano ibrido di artista country-rock destinato a battaglie solitarie fino alla fine. Qui trovate alcuni suoi piccoli capolavori d'autore come la diretta Time To Go Inward, bellissimo inventario delle proprie esperienze e delle proprie emozioni dopo trent'anni on the road, oppure l'epica title-track, una delle sue cose migliori di sempre, un testo intraducibile fatto di giochi di parole a dichiarare il proprio totale disorientamento nel mondo moderno. Nè rock, né country, il nuovo Crowell viaggia sulle corde di rock acustico cantautoriale che ben si sposa con la sua forte attitudine melodica, facendo così risplendere brani come The Man In Me, Ridin'Out The Storm e This Too Will Pass. Perfettamente dosato tra riflessione (Adam's Song) e divertimento (Preachin' To The Choir), Fate's Right Hand si può tranquillamente ritenere il suo disco della raggiunta maturità.

:: Il resto

But What Will the Neighbors Think
[Warner Bros., 1980]
Fatte le debite distanze, il tentativo fu simile a quello operato dai Byrds di Sweetheart Of The Rodeo: prendere la tradizione di Nashville e portarla su terreni nuovi, senza snaturarne il senso e il suono. Nel caso dei Byrds la terra straniera era quella del rock, qui invece Crowell tentò una strana virata verso la new wave. Il co-produttore Craig Leon era appena uscito dalle sale di registrazione di Blondie, Suicide, Richard Hell & the Voidoids e Ramones, e tentò di aggiornare l'outlaw-sound dell'esordio inserendo batterie più pesanti e chitarre più metalliche. Rodney fornì ottime prove come perfomer, dimostrandosi a suo agio in episodi puramente rock come Here Comes The 80's, Queen Of Hearts o la rockabilly It's Only Rock And Roll, ma perdendo grinta e incisività negli episodi più romantici come Oh, What A Feeling, dove il country-sound qui abiurato (e relegato alla scanzonata Heartbroke di Guy Clark) avrebbe reso ben altri servizi. Se il singolo Ashes By Now resta una delle sue love-song più coinvolgenti, On A Real Good Night segue palesemente le orme delle ballate pianistiche di Bob Seger, e altrove il giovane Rodney cerca di seguire sentieri alternativi, con risultati buoni come il bel viaggio nel delta di Blues In The Daytime (con la chitarra di Albert Lee in gran spolvero) o meno determinati, come lo strano sixties-folk di The One About England.

Rodney Crowell
[Warner Bros., 1980]
Prima di sparire nel vortice di plastica degli anni '80, Crowell pubblicò un buon terzo disco senza titolo, che rimane forse il miglior elenco di ragioni del suo mancato successo. Forte di due brani in puro Gram Parsons-style che diventeranno bestseller in mani altrui (la splendida Shame On The Moon e la ultra-rivisitata Til I Gain Control Again, forse il suo brano più classico), il disco oscillava senza prendere una posizione netta e decisa tra voglie ben poco nascoste di honky-tonk rock (Just Wanna Dance, Don't Need No Other Now e Old Pipeliner) e tentativi di assecondare con piena dignità le richieste di sugar-pop della Warner Bros con le più che accettabili romanze di Victim Or A Fool e Stars On The Water. Avere nello stesso disco canzoni "easy-going" come All You've Got To Do o Only Two Hearts e momenti di canzone d'autore vera come la bella cover di She Ain't Going Nowhere di Guy Clark era troppo disorientante perché il disco potesse creare uno zoccolo duro di fans fedeli. Incapace di accettare completamente i compromessi richiesti dal nuovo mercato discografico, Crowell chiuse la prima parte della sua carriera con un disco puramente nashvilliano che anticiperà di qualche anno la svolta neo-tradizionalista.

Street Language
[Columbia, 1986]
E' solo una delle tante storie degli anni '80, l'ennesima prova delle violenze artistiche perpetrate dalle case discografiche, che in quegli anni la facevano veramente da padrone (e meno male che oggi possiamo parlare di queste cose come di un fenomeno passato). Accadde che nel 1984 Crowell presentò il suo quarto disco alla Warner Bros, che lo rifiutò per la mancanza di un 45 giri plausibile. Quando la Columbia accettò di prendersi l'onere erano già passati due anni, ma nonostante Street Language uscisse in ritardo e già vecchio per il mercato, le critiche furono tutto sommato positive. Il disco seguiva la nuova idea di country moderno di Crowell, che per l'occasione accentuò le spruzzate soul mettendo Booker T. Jones alle tastiere, Billy Joe Walker alle chitarre e utilizzando i fiati degli Uptown Horns, ma risultando un po' troppo confuso sul modo di scrivere il nuovo genere. Brillano Let Freedom Ring e Ballad Of Fast Eddie, piace la cover di She Loves The Jerk di John Hiatt (che collaborava a tutto il disco), e sebbene oggi il suono appaia inesorabilmente datato e superato, Street Language risulta essere ancora un disco al di sopra della media del suo periodo.


Keys to the Highway
[Columbia/Lucky Dog, 1989]
Aveva i soldi, aveva i musicisti (una super-band battezzata The Dixie Pearls) e aveva la fiducia della casa discografica: Keys To The Highway fu il classico fallimento da ansia da prestazione, ma in fondo bisogna rendergli merito sulle ragioni. Diamonds & Dirt infatti era un disco intransigentemente country, esattamente quello che Rodney non voleva essere. Il suo errore fu la fretta: invece di consolidare il successo e sfruttarne successivamente le libertà d'azione, lui consegnò subito alle stampe uno strano ibrido che mischiava senza troppo raziocinio country melenso, cantautorato classico, rock e blues, una ratatouille di influenze che fece solo rimpiangere la monolitica unitarietà e lievità del predecessore. Il pasticcio non fu tanto la varietà, che comunque gli rese di nuovo nemica la Nashville più tradizionalista, quanto l'aver comunque confezionato il tutto con la scintillante e plastificata produzione di Tony Brown, quando invece l'occasione sarebbe stata propizia per una ricerca sonora più coraggiosa e meno radio-friendly. Nulla di male se decidete di dargli una chance, Soul Searchin', Faith Is Mine e Things I've Wish I've Said sono ulteriori testimonianze di una penna felicemente delicata, ma questo era un Crowell troppo lontano dal suo stesso spirito rock and roll di fondo per poter far innamorare.


Life is Messy
[Columbia/Lucky Dog, 1992]
Deluso dalle reazioni negative suscitate da Keys To The Highway, Crowell passa i primi anni 90 in piena crisi artistica, indeciso sulla strada da intraprendere. Stanca di una vita passata sulle montagne russe dei suoi umori, la moglie Rosanne lo lascia ufficialmente nel 1991, e se l'ultimo disco da grandi produzioni della sua carriera venne intitolato Life Is Messy (la vita è un casino) non sorprende più di tanto. Life Is Messy tentava (senza riuscirci) una decisa presa di distanza dal nuovo country commerciale di Nashville che lui stesso aveva contribuito a rilanciare, con dieci brani di pop-rock infarciti di melodie sixties (su tutte la bella Answer Is Yes), carellate honky tonk da viaggio in macchina (It Don't Get better Than This o Lovin'All Night) e l'onore di un brano co-firmato con Roy Orbison (la sdolcinatissima What Kind Of Love) e uno con il suocero Johnny Cash (l'epica e struggente I Hardly Know How To Be Myself). La produzione patinatissima e decisamente stagionata del "Signor Joni Mitchell" Larry Klein e del "Signor Shawn Colvin" John Leventhal e uno stuolo di ospiti d'onore (Steve Winwood, Linda Ronstadt, Don Henley, Jim Lauderdale, senza contare l'elenco di session-man di primissimo livello) bastarono solo a dargli un decente commiato dalle luci della ribalta. La Columbia infatti non si preoccupò nemmeno di promuovere il disco e lo scaricò senza troppi complimenti.

Let the Picture Paint Itself

Jewel of the South

[MCA, 1994/1995]
A risollevare la carriera di Crowell ci prova senza troppa convinzione la MCA dell'amico e produttore Tony Brown, che produce due dischi tra il 1994 e il 1995, accomunati da copertine orride e una mancanza di focus su chi essere e dove andare da parte del padrone di casa. Let The Picture Paint Itself parte convinto con la bella title-track, sicuramente episodio da considerare per una suo ipoetico The Best, ma prosegue nell'ovvietà di una serie di country-songs sempre indecise se voler volgere verso suoni più rocciosi o abbracciare la salutare leggerezza del pop. L'amico Guy Clark aiuta il disco ad acquistare spessore co-firmando Stuff That Works (che finirà anche nel suo Dublin Blues) e The Rose Of Memphis, ma non basta. Senza grandi novità anche Jewel Of The South, se non qualche buon tentativo di inserire elementi tex-mex nella title-track e nella bella storia di The Ballad Of Possum Potez, brani che con il potente rock di Love To Burn rendono il disco tra i suoi più vari stilisticamente. Compaiono qui titoli comunque importanti come Just Say Yes e una divertita cover del classico Candy Man, altro indiretto omaggio a Roy Orbison, presente in firma ancora una volta nel finale di Que'Es Amor. Il periodo MCA venne così consegnato alla storia come una prova di grande classe e professionalità, con vendite al solito scarse, ma ormai era evidente che Crowell stava rimanendo indietro rispetto alle produzioni contemporanee di un Dwight Yoakam o dell'altro astro nascente Jim Lauderdale.


The Outsider

[Columbia, 2005]




Rinfrancato dalle ottime critiche ricevute con i due dischi precedenti, nel 2005 Crowell torna all'amata/odiata Columbia per pubblicare The Outsider, probabilmente il suo disco più rock e fracassone. Chitarre in libertà (Will Kimborough e Pat Buchanan), suoni con volumi alti e ritmi serrati: The Outsider è un disco nato per poter strabiliare anche dal vivo, con brani assolutamente funzionali all'esaltazione di una folla come Say You Love Me o la serrata invettiva di The Obscenity Prayer, con sassolini da togliersi dalle scarpe verso la Nashville più detestata ("Le Dixie Chicks mi possono baciare il culo, ma non ho ancora avuto il pass per il loro backstage"). Il disco alterna guasconate da bulletto di campagna (Things That Go Bump In The Day, con dichiarazioni tipo "mi sento James Dean con te tra le braccia"..), rockettini facili e cantabili (Don't Get Me Started) a dylanismi vari che vanno da una Dancin Circles Round The Sun che tiene i ritmi dei malati blues sotterranei di Bob, ad una Beautiful Despair che spara subito un verso come "Bella disperazione è ascoltare Dylan alle 3 del mattino…", fino ad una interessante cover di Shelter From The Storm che serve più che altro ad una rimpatriata con la vecchia amica Emmylou Harris. Sempre la Harris e John Prine offrono un recitato nell'altro manifesto elettorale di Ignorance Is The Enemy, corale e retoricissimo appello alla nazione, utile più che altro a ribadire come Crowell rimanga autore poco avvezzo a temi sociali e più a suo agio con i sentimenti. Resta anche la title-track, sorta di resoconto di una vita da eterna promessa e un disco tra i più immediatamente assimilabili del suo catalogo.


Sex & Gasoline

[Yep Roc, 2008]



L'altra faccia del pompato The Outsider è il rilassato Sex And Gasoline, forte di una copertina da spavaldo latin-lover del giorno dopo, e soprattutto primo grande tentativo della sua carriera di venire a patti con una forte creatività altrui. Il pigmalione del disco è un Joe Henry ormai subissato di richieste come produttore e arrivato al punto di imprimere su ogni disco un marchio fin troppo personale e riconoscibile. Disco di gran livello per suoni (ottime le chitarre di Doyle Bramhall III e Greg Leisz) e songwriting, Sex And Gasoline appare però un po' come un'occasione persa del suo percorso, perché il risultato è appena discreto e decisamente al di sotto delle aspettative. Rodney da par suo ha offerto al progetto alcune ottime canzoni come la divertente title-track o ispirate ballads come The Night's Just Right e Closer To Heaven, ma su tutto il disco Henry fa calare una patina che sa di forzatamente lezioso, ricercato, in fin dei conti pretenziosamente e inutilmente schizzinoso verso qualsiasi tono un po' sopra le righe. Restano comunque alcuni importanti episodi della sua storia come la tesa e dylanesca I Want You #35, il gospel texano alla Lyle Lovett di Who Do You Trust e la baldanzosa Funky And The Farm-Boy.


:: Riepilogo (discografia)

Ain't Living Long Like This (Warner Bros. 1977) 9
But What Will the Neighbors Think (Warner Bros. 1980) 7
Rodney Crowell (Warner Bros. 1981) 7,5
Street Language (Columbia 1986) 6
Diamonds & Dirt (Columbia/Legacy 1988) 8
Keys to the Highway (Columbia/Lucky Dog 1989) 6
Life Is Messy (Columbia/Lucky Dog 1992) 6,5
Let the Picture Paint Itself (MCA 1994) 5,5
Jewel of the South (MCA 1995) 6
The Houston Kid (Sugar Hill 2001) 9
Fate's Right Hand (DMZ/Epic 2003) 8,5
The Outsider (Columbia 2005) 7,5
Sex and Gasoline (Work Song/Yep Roc 2008) 7

The Cicadas
The Cicadas (Warner Bros 1997) 8

The Notorious Cherry Bombs
The Notorious Cherry Bombs (Universal South 2004) 6,5

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