venerdì 20 marzo 2009

ROBYN HITCHCOCK & VENUS 3 - Goodnight Oslo


20/02/2009
Rootshighway

VOTO: 8


Uguale a nessun'altro, ma sempre identico a sé stesso, questo è Robyn Hitchcock dopo più di trent'anni di carriera. Un eterno bambino del pop psichedelico inglese e un uomo che (sono parole sue) non si è mai ben inserito nella società moderna. La sua musica negli anni ottanta è stata sublime e importante, ma questo non l'ha mai fatto uscire dal rango di cult-artist, uno di quei nomi incapaci di fare il botto con il capolavoro universalmente riconosciuto, ma anche di produrre un brutto disco. O lo si ama o lo si ignora Hitchcock, sia quando dimostra di essere il miglior figlio illegittimo di Syd Barrett, sia negli ultimi anni, in cui ha (ri)scoperto Dylan e si è innamorato della musica roots americana.

Un matrimonio a noi gradito, ma che nascondeva però una certa perdita della sua vera identità. Goodnight Oslo riporta tutto alla perfezione di un tempo: è un disco di Hitchcock al 100%, per certi versi riconducibile ad un Globe Of Frogs o ad un Queen Elvis come stile e ispirazione (Your Head Here sta da quelle parti). E sulla strada si recupera anche la proficua collaborazione con Peter Buck dei R.E.M., che con Scott McCaughey (con cui Buck ha dato vita con Steve Wynn ai Baseball Project) e Bill Rieflin, formano questa nuova edizione dei Venus 3. Non che gli ultimi lavori (per lo meno Spooked e Olè Tarantula) fossero quelli di un artista in crisi, ma qui torna finalmente il genietto che con poche canzoni ti gettava in un mondo tutto suo, fatto di fiabe disarmoniche, mostri incoerenti e visioni grottesche. Torna l'uomo che meglio utilizza gli splendidi arpeggi di un Buck anche lui con la lancetta del tempo volta all'indietro, sempre utile per confezionare perfette pop-songs visionarie come I'm Falling, marcette da White Album come Saturdays Groovers o quelle acide nenie con voce bassa che ce lo fanno amare da sempre (16 Years).

Le escursioni nella tradizione americana non sono state però gettate al vento, solo adesso sembra che lo scolaro abbia finito le ripetizioni e sappia maneggiare e plasmare la materia a suo piacimento. Così il disco si apre con una What You Is che inizia come la farebbe iniziare un John Fogerty e continua passeggiando sui versi di Gotta Serve Somebody di Dylan. Oppure Hurry For The Sky, cavalcata quasi country che fa sfoggio di slide guitars nelle casse e cactus nelle suggestioni, o la stralunata Up To Our Necks, concepita con il pensiero rivolto ad una mariachi-band tra fiati, mandolini e distorsioni varie. I testi hanno come al solito un senso intraducibile, pena la perdita di quei giochi delle parole che si muovono in uno spazio concettuale che si governa con logiche diverse dalle nostre. L'unico modo per stare al passo è lasciarsi andare alle sue dinamiche perverse, come quelle del rapporto uomo-donna raccontato in Intricate Thing, nella mattonella allucinata di TLC. o nei sei minuti di Goodnight Oslo. Le nuove generazioni di folksinger allucinati si siedano e prendano appunti prego…
(Nicola Gervasini)

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