Ben Sollee nasce come violoncellista, e già lo strumento scelto lo rende un caso abbastanza particolare nel mondo del cantautorato rock, ma la storia del bambino lanciato verso studi classici che sulla strada per Beethoven si fa catturare dal soul di Ray Charles e Otis Redding non è neanche nuovissima. Da qui parte la sua storia di musicista moderno, dal tentativo di portare il suo amato strumento classico anche nel mondo del nuovo indie-folk, magari assieme a strumenti più adatti al genere da lui suonati all’occorrenza (chitarra, banjo, basso, armonica, tastiere). La sua è una carriera recente: prima la collaborazione con la banjoista Abigail Washburn, un piccolo ep che già fece abbastanza rumore (If You’re Gonna Lead My Country) e il successivo acclamato album d’esordio intitolato Learning To Bend (tutto nel 2008) furono il biglietto d’entrata nel mondo della roots music più vicina al mondo indie. Quanto basta per suscitare l’interesse della Sub Pop, che l’anno scorso ha pensato bene di unire il nuovo talento del nuovo folk-revival americano Daniel Martin Moore con lui per un disco a due mani (Dear Companion, prodotto da Jim James dei My Morning Jacket) che non ha però riscosso gli applausi sperati, mentre maggiori consensi ha ottenuto il tour con Vienna Teng. E’ tempo dunque di conferme e quindi del fatidico secondo album per Sollee, che recapita questo Inclusions ricorrendo alla saggia produzione di Duane Lundy, produttore esperto che usa scrivere “Musician Coaching” sul biglietto da visita, e che ha spinto Sollee a lavorare molto con le sovra incisioni e ad avvalersi solo di pochi fidati collaboratori, nonostante il risultato sia un sound tutt’altro che scarno ed essenziale. Ascoltate l’iniziale Close To You, praticamente quello che avrebbe partorito Curtis Mayfield (la voce lo ricorda molto) se avesse sposato un po’ del wall of sound di Phil Spector. Ma già le successive The Globe e Hurting, con il loro cadenzare rock creato dal violoncello (ricordano molto l’Alejandro Escovedo di Thirteen Years) fanno capire che non ci sarà posto per certi barocchismi alla Joanna Newsom. Magari c’è spazio qualche piccolo brano tutto-archi evocativo e sognate come Embrace, ma il continuo utilizzo dei fiati (Bible Belt si basa praticamente su quelli e su un giro di basso che proprio Mayfield avrebbe certamente benedetto) dona sempre ritmo e colore ai brani. Disco che vive di alcuni inevitabili alti e bassi, Inclusions è un bell’esempio di come la musica odierna possa creare nuove sonorità solo miscelando stili differenti, con risultati curiosi e spesso piacevoli. Consigliato a chi cerca nuovi stimoli senza uscire troppo dal seminato della tradizione.
Nicola Gervasini
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