mercoledì 29 giugno 2011
KURT VILE - Smoke Ring for My Halo
Fa un po' ridere pensare che le prime presentazioni di Kurt Vile lo descrivessero come un seguace di Bruce Springsteen e Bob Seger, visto che il suo album del 2009 Childish Prodigy (il terzo della sua carriera) è stato un vero successo di critica negli ambienti più progressivi e indipendenti della critica musicale, tanto da guadagnarsi anche una sponsorizzazione da parte di Kim Gordon dei Sonic Youth. Vile, cantautore di Philadelphia, è infatti uno di quei personaggi che si muove ai margini della roots-music con un fare "indie" che crea sempre un certo interesse ed evita che lo si confonda con l'ultimo hobo del Texas o il penultimo "nuovo Dylan". Da sempre fedele all'immagine del one-man-band da strada (era l'immagine di copertina del suo secondo disco), ma ormai convertito alle gioie di un suono più pieno di una band, potremmo collocarlo in un'area prossima al compianto Vic Chesnutt, uno che piaceva sia ai conservatori che ai progressisti della musica.
Smoke Ring For My Halo è il suo nuovo lavoro, prodotto dall'esperto John Agnello (Sonic Youth, Dinosaur Jr.) con un piglio decisamente alternativo, con la chitarra acustica di Kurt sempre in primo piano e il resto dalla band (i Violators) sempre comunque in disparte. La forza di Vile è sicuramente nei bei arpeggi che sorreggono i suoi brani, e non certo nella voce, che cerca effettivamente l'accento del sud di Tom Petty, ma finisce per sembrare come se fosse filtrata elettronicamente anche quando non lo è, avvicinandolo piuttosto all'essenzialità del folk stralunato di M Ward. In alcuni casi la particolarità diventa un punto di forza, come nell'elettrica Puppet To The Man che sarebbe piaciuta al Robyn Hitchcock di metà anni 80, altre volte invece, quando la ballata segue addirittura giri acustici da west coast anni 70 (On Tour), il suo fare atteggiato stride un po'.
Quello che si nota subito ascoltando Smoke Ring For My Halo è una certa indecisione tra voglia di volare basso con un disco volutamente lo-fi (Jesus Fever), e tentativi non sempre ben definiti di strutturare i propri brani in chiave più pop (Peeping Tomboy o Ghost Town), che rende l'album in qualche modo irrisolto. Resta comunque la testimonianza di un buon talento, anche se non è ancora questo a nostro parere il disco che lo conferma a livelli di eccellenza, ma visto che sul titolo si sta comunque scatenando un piccolo hype nel web, dategli una chance, trovare artisti come questo in grado di unire nella discussione popoli rock distanti non è facile e resta buona occasione di confronto. Se poi i complimenti a queste canzoni siano solo questione di perfetta aderenza ad una moda del momento o vera gloria è decisione che resta dipendente dal vostro buon senso.
(Nicola Gervasini)
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