sabato 5 gennaio 2013

MARK EITZEL - DON’T BE A STRANGER


MARK EITZEL

DON’T BE A STRANGER

Merge

***

Sembrava un po’ un caso perso Mark Eitzel. Non perché l’artista stia producendo materiale scadente, quanto perché negli anni novanta aveva fatto intuire ben più interessanti sviluppi per il suo soffuso rock alternativo, soprattutto quando all’indomani della fine della bella epopea degli American Music Club, aveva dato alle stampe un bellissimo disco come 60 Watt Silver Lining. Il seguito però non è stato altrettanto entusiasmante, vuoi perché Mark ha prodotto troppo e troppo disordinatamente, vuoi perché il suo stile “lumacoso” non ha mai trovato  lo sviluppo necessario per risolvere l’inevitabile effetto noia. Don't Be A Stranger  arriva dopo l’involuto Klamath del 2009, e soprattutto dopo la tanto attesa (ma in fin dei conti deludente) reunion degli American Music Club del 2008 (l’album era The Golden Age), e in qualche modo ritrova un Eitzel invecchiato nella verve (è reduce anche da una lunga degenza post-infarto) e nella voce, ma con ancora molto da insegnare sul piano del songwriting (basterebbe anche solo la dark-story di I Love You But You're Dead a mangiarsi intere schiere di giovani cantautori). Stilisticamente l’album ripercorre le sue solite coordinate, alternandosi tra episodi di oscuro folk acustico (The Bill Is Due o la teatrale Costumed Characters Face Dangers While at the Workplace) ad eleganti e romantiche love-songs come All My Love, suonate con quel gusto quasi lounge-jazz che lo ha sempre contraddistinto. Prodotto da Sheldon Gomberg (Ron Sexsmith, Ben Harper, Rickie Lee Jones) e impreziosito dalla presenza di  Pete Thomas, mitico batterista degli Attractions di Costello, Don't Be A Stranger  gode di una quantità elevata di materiale ispirato, ma finisce (come spesso succede ai dischi di Eitzel) per ripetere all’infinito una formula che va bene solo se ascoltate il disco la sera tardi nel silenzio della notte. Inevitabile dunque che il ritmo vada scemando nella seconda parte, con qualche caduta di tono (la troppo strascicata Lament for Bobo The Clown) e qualche brano che necessitava magari più attenzione (You’re Waiting) che ci impedisce di gridare al grande ritorno. Più che altro perché il confronto con il passato resta uno scoglio difficile da sorpassare, e lo sa bene anche lui che nei primi versi di The Bill Is Due dichiara Chi ha bisogno del passato? Si attacca alla tua scarpa, tu cerchi di scrollarlo, ma è il prezzo da pagare
Nicola Gervasini

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