MARK EITZEL
DON’T BE A STRANGER
Merge
***
Sembrava un po’ un caso
perso Mark Eitzel. Non perché
l’artista stia producendo materiale scadente, quanto perché negli anni novanta
aveva fatto intuire ben più interessanti sviluppi per il suo soffuso rock alternativo,
soprattutto quando all’indomani della fine della bella epopea degli American
Music Club, aveva dato alle stampe un bellissimo disco come 60 Watt Silver Lining. Il seguito però
non è stato altrettanto entusiasmante, vuoi perché Mark ha prodotto troppo e
troppo disordinatamente, vuoi perché il suo stile “lumacoso” non ha mai
trovato lo sviluppo necessario per risolvere
l’inevitabile effetto noia. Don't Be A Stranger arriva
dopo l’involuto Klamath del 2009, e
soprattutto dopo la tanto attesa (ma in fin dei conti deludente) reunion degli
American Music Club del 2008 (l’album era The
Golden Age), e in qualche modo ritrova un Eitzel invecchiato nella verve (è
reduce anche da una lunga degenza post-infarto) e nella voce, ma con ancora
molto da insegnare sul piano del songwriting (basterebbe anche solo la
dark-story di I Love You But You're Dead
a mangiarsi intere schiere di giovani cantautori). Stilisticamente l’album
ripercorre le sue solite coordinate, alternandosi tra episodi di oscuro folk
acustico (The Bill Is Due o la
teatrale Costumed Characters Face Dangers
While at the Workplace) ad eleganti e romantiche love-songs come All My Love, suonate con quel gusto
quasi lounge-jazz che lo ha sempre contraddistinto. Prodotto da Sheldon Gomberg (Ron Sexsmith, Ben
Harper, Rickie Lee Jones) e impreziosito dalla presenza di Pete
Thomas, mitico batterista degli Attractions di Costello, Don't Be A Stranger
gode di una quantità elevata di materiale ispirato, ma finisce (come spesso
succede ai dischi di Eitzel) per ripetere all’infinito una formula che va bene
solo se ascoltate il disco la sera tardi nel silenzio della notte. Inevitabile
dunque che il ritmo vada scemando nella seconda parte, con qualche caduta di
tono (la troppo strascicata Lament for Bobo
The Clown) e qualche brano che necessitava magari più attenzione (You’re Waiting) che ci impedisce di
gridare al grande ritorno. Più che altro perché il confronto con il passato
resta uno scoglio difficile da sorpassare, e lo sa bene anche lui che nei primi
versi di The Bill Is Due dichiara Chi ha bisogno del passato? Si attacca alla
tua scarpa, tu cerchi di scrollarlo, ma è il prezzo da pagare.
Nicola Gervasini
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