La doppia reunion con il vecchio compare Gary Louris non si
può dire che sia andata benissimo (un disco a due mani, discreto ma non
fondamentale, e una poco acclamata reunion dei Jayhwaks all’attivo), e così Mark Olson ritorna nel suo brodo,
mentre Louris tiene in vita la gloriosa sigla per un nostalgico tour a supporto
delle nuove ristampe. Si può semplificare così il tema artistico di questo Good-bye Lizelle, album che arriva
quattro anni dopo il loffio Many Coloured
Kite. Il disco nasce dalla collaborazione artistica e di vita con l’artista
norvegese Ingunn Ringvold (nota in
patria anche come Sailorine), che di fatto pur non condividendo la paternità
del disco, compare in copertina con il nostro Mark per prendersi gli onori del
caso. E sua è infatti la band che suona nel disco (da notare l’ottima pianista
Karine Aambo), registrato in Norvegia all’aperto con musicisti locali e con
l’unica aggiunta della chitarra di Neal
Casal (che ha comunque registrato separatamente a Los Angeles),
probabilmente una rifinitura decisa per rendere meno oltranzista il suono del
disco. Che si discosta molto dalle produzioni country-oriented di Olson per
abbracciare un folk psichedelico e decisamente vintage, che più che ai Jayhawks
fa pensare alla Incredible String band. L’apertura dell’album infatti è anche
abbastanza ostica, con le trame complicate di Lizelle Djan e una ballata da folk acido come Running Circles a far capire subito che stavolta ci vorrà più impegno
per digerire queste folk-songs, ma anticipiamo già che ne varrà la pena. Casal
poi però ci mette del suo in Poison
Oleander, in cui spolvera le stesse chitarre che usa per i dischi di Chris
Robinson per produrre un brano che pare davvero uscito da uno dei cofanetti
Nuggets per il suo tono sixties-garage. E’ un caso però, perché già Heaven’s Shelter sembra un episodio più
rurale dei Beatles, All These Games
una di quelle soffici poesiole folk alla Simon & Garfunkel, solo più
imbevuta di suoni hippie. Lo schema comunque è quello a due voci, con la
Ringvold a recitare un ruolo che in passato è stato di Louris prima e Victoria
Williams poi, ma anche caratterizzando parecchio il suono con le pianole e
piccoli clavicembali elettrici e soprattutto il Quanon, tipico strumento a
corde indiano. Il disco è comunque di spessore e forse una delle cose migliori
prodotte dalla altalenante carriera solista di Olson, solo come al solito un poco
calibrato tra momenti riflessivi (troppi) e momenti svago. Nel finale manca
infatti un brano che spezzi un po’ la tensione, ma Olson non è mai stato molto
attento alla costruzione dei suoi album solisti. In ogni caso un buon ritorno
alla forma di un autore che, seppur non più in prima linea da tempo, resta un
nome importante del firmamento roots americano.
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