venerdì 16 ottobre 2020

PAUL WELLER

 

   
 

Paul Weller
On Sunset

[Polydor 2020]

paulweller.com

 File Under: The Lounge Father

di Nicola Gervasini (16/07/2020)


Quando sei Paul Weller, uno che la stampa britannica ha soprannominato The Modfather, indiscusso punto di riferimento di un modo di essere british a tutto tondo, è logico che non hai più nulla da dimostrare. Ogni sua uscita discografica (e lui, bene o male, non si è mai concesso grandi pause) è sempre salutata con devozione e rispetto dai fans della musica inglese come di quella americana, perché Paul è uno che può anche sbagliare una canzone, ma non esiste un suo album che non proponga qualcosa di intrigante e interessante, o semplicemente non insegni stile a tutte le generazioni più giovani. Da tempo si sottolinea come anche i tempi del capolavoro Stanley Road siano ormai lontani, e che a partire da 22 Dreams (era il 2008) il nostro stia un po’ oscillando tra tanti esperimenti stilistici che non sempre hanno colpito nel segno, come il caso del non memorabile Sonic Kicks del 2012. Ma se un momento di calo c’è stato, è anche vero che da Satturn Patterns (2015) si respira aria di rinnovato vigore e ispirazione, ancora non asservita a quella semplice riproposizione dei propri vecchi schemi, quella che ti aspetteresti da un sessantaduenne.

Lo conferma anche On Sunset, suo quindicesimo album solista mal presentato da una orrenda copertina, purtroppo funzionale ad essere vista in piccolo sui canali streaming, ma che a differenza del monoliticamente rilassato True Meanings del 2018, rigioca la carta della varietà. La lunga Mirror Ball infatti è messa lì in apertura con il chiaro intento di spiazzare l’ascoltatore, con le sue tastierine dance-pop e una costruzione del tutto atipica, un brano che parrebbe anche una convincente risposta alle uscite di confine del Beck più recente. Ma la sequenza successiva mischia subito il mazzo e distribuisce carte che trasudano la sua musica di un tempo, dal soul tutto fiati di Baptiste e di Old Father Thyme, alle stilose ballad Village e More (quest’ultima con la voce di Julie Gros dei Le SuperHomard, e forte di una coda strumentale che vede un bellissimo scontro tra fiati, archi e chitarre che rappresenta il momento musicalmente più esaltante del disco).

La title-track cambia ancora toni, ricerca gli Style Council più “stilosi” che furono, e ancora una volta gioca su arrangiamenti di archi e fiati quasi alla Lee Hazlewood, mentre le svogliate marcette pop di Equanimity e Walkin’ sono forse “cosette” un po’ ovvie e risapute per uno come lui, anche se, pure in occasione di brani “minori”, l’attenzione all’arrangiamento e ai particolari è davvero encomiabile, nonostnate qualcuno abbia già parlato di eccessi e sovraproduzione. A questo punto il singolo Earth Beat, che a marzo aveva anticipato il disco, pare davvero un po’ un pesce fuor d’acqua con le sue atmosfere dance, e la ballata Rockets risolleva un finale in tono minore di un album che comunque conferma il suo buon stato di forma, e una facilità a trovare il ritmo, il suono o la melodia giusta, che resta uno dei più grandi patrimoni di sempre della musica britannica.


Paul Weller – More (da “On Sunset”)

 

Quasi setti minuti, Burt Bacharach e Lee Hazlewood che fanno una uscita a coppie con Dionne Warwick e Nancy Sinatra, l’eleganza musicale degli anni 60 insomma. Era questo che inseguiva Paul Weller con More, aiutato dalla voce di Julie Gros dei Le SuperHomard, ma arrivato al minuto 3.30, con la canzone ormai finita, lui ci ha messo una coda fatta di classe pura, con dialoghi tra archi, fiati e chitarre che fanno capire perché rifare una “sixties-lounge-pop-song” è cosa alquanto di moda in questi anni 2000, ma con lui siamo davvero nella modernità e non nel mero vintage.

 

Nicola Gervasini

 


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