Marissa
Nadler
The Path
of the Cloud
(Bella
Union, 2021)
File Under:
Murder Ballads
In circa vent’anni di carriera Marissa
Nadler è rimasta un personaggio sempre un po’ a metà del guado tra il
rimanere un fenomeno sotterraneo, o un punto di riferimento per il cantautorato
femminile di questi anni 2000. Sicuramente, dopo i primi tre album acclamati
dalla critica, in questi anni Dieci Marissa si è un po’ chiusa in sé stessa con
dischi sognanti, mai brutti, ma difficilmente ritrovabili in cima alle
classifiche di fine anno delle riviste musicali. Colpa anche di una produzione
ormai sterminata, tra dischi ufficiali pubblicati per la Bella Union, e i tanti
home-made records (spesso collezioni di curiose cover), che un po’ hanno
confuso il suo mercato. Musicalmente il suo dream-pop sempre più etereo stava
anche diventando ripetitivo e poco eccitante, e così il lockdown le ha permesso
di fermarsi a riflettere anche sulla sua strada musicale, con il risultato di
un album come The Path of the Cloud, che sa
di piccolo punto di svolta. La differenza lei l’attribuisce all’aver composto
queste canzoni non più su chitarra, ma su pianoforte, coinvolgendo poi nelle
session lo stesso musicista che le ha impartito lezioni durante il ritiro forzato,
Jesse Chandler (sentito anche nei dischi di Midlake, Israel Nash e Mercury Rev),
ma, aggiungerei, anche grazie all’essere, per la prima volta dai tempi delle collaborazioni
con gli Espers (era il 2007 con l’album Songs III: Bird on the Water), un lavoro
corale, frutto di reale collaborazione artistica. L’album è poi interessante anche
dal punto di vista delle liriche, che prendono a pretesto le vere storie di
crimini irrisolti di una trasmissione televisiva (i documentari Unsolved Mistery
di Netflix) per creare una sorta di catalogo di murder ballads moderne. Il
risultato è un leggero cambio di tono, che porta forse un taglio più autoriale,
ma perde per strada una certa facilità melodica che la rendeva sempre e
comunque immediata ai primi ascolti. L’aiuta nell’impresa soprattutto l’arpa di
Mary Lattimore, strumento che più caratterizza il suono del disco, insieme agli
interventi delle voci di Emma Ruth Rundle e di Amber Webber (Black Mountain), e,
come al solito, del patron della Bella Union Simon Raymonde (era nei Cocteau
Twins prima di darsi all’imprenditoria musicale). Bessie Did You Make It? brano
di apertura che funge anche da singolo corredato da suggestivo video, non a
caso ricorda un po’ la Where The Wild Roses Grow che fu di Nick Cave con
Kyle Minogue, e fa riferimento alla vera storia di due sposini spariti nel
fiume Colorado nel 1928 mentre risalivano il fiume in canoa, con l’intento di
fare della moglie Bessie la prima donna a compire l’impresa, e ancora oggi
nelle televisioni americane si discute se si sia trattato di tragico incidente ,o
omicidio, o altro, visto che i corpi non furono mai ritrovati. Ma a seguito
arrivano le storie di fuggitivi dalla prigione di Alcatraz di Well Sometimes
You Just Cant Stay o le semplici domande senza risposte sulla vita della
title-track (d’altronde, “i filosofi fanno ipotesi, ma semplicemente non lo
sanno”). Disco non facile, volutamente “dark”, ma sicuramente importante per
una autrice che sta con tutta evidenza cercando la propria maturità.
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