The
Lathums – How Beautiful Life Can Be
Islands Records, 2021
La stampa musicale inglese è
storicamente specializzata nell’urlare debutti clamorosi che cambierebbero
tutte le carte in tavola del mondo del rock (perlomeno britannico), salvo poi
dimenticarsene presto, e c’è di buono che la pratica, particolarmente in voga
negli anni Novanta, trova difficile attuazione ai giorni nostri. Immagino
infatti che 30 anni fa l’esordio dei Lathums sarebbe stato salutato con
titoloni, copertine e recensioni altisonanti che coglievano di sorpresa gli ascoltatori
di un tempo, costretti dall’oggi al domani ad avere che fare con un nome nuovo
e da scoprire assolutamente. Oggi invece i Lathums non sono una sorpresa, visto
che già da tempo circolavano video e EP, ma insomma questo How Beautiful
Life Can Be ha tutta l’aria di voler essere il loro primo passo
importante. Guardatevi il video di Fight On o I’ll Get By per
capire subito tutto: chitarre anni Ottanta con Johnny Marr nel cuore, batteria
un po’ grossa come si usa ancora oggi, un po’ di spleen dark-80 rimodernato
alla War On Drugs, ma una voce decisamente da indie-pop anni 2000. E, non
ultimo, l’importanza del loro “non-look”, con il cantante Alex Moore che si presenta
volutamente come il secchione a cui chiedevate i compiti da copiare a scuola, e
che ironizza parecchio sul suo “non-physique du role” anche nei video. Insomma,
mi immagino che per i giovani la band possa avere oggi lo stesso impatto di
simpatia e ammirazione che ebbero gli Housemartins negli anni Ottanta, quando
tra mille capelli iper-cotonati e vestiti sgargianti, quattro inglesi in abiti
che ai tempi si definivano da “nerd” scalarono le classifiche con un video di
un coro a cappella in chiesa. Oggi forse non c’è più bisogno di rompere troppi
schemi estetici, visto che l’“understatement” dei frontman è uno degli elementi
obbligati della indie-band moderna.
Modestia (falsa o no che sia) a parte, la band è quanto di più british
ci sia capitato di sentire ultimamente, anche nei testi che cantano di una
working class britannica che riesce a trovare il sorriso tra mille difficoltà,
lavori che si perdono, amori idealizzati oltremisura (I'll Never Forget The
Time I Spent With You) e pinte di troppo al pub. Fortemente sponsorizzati da
Tim Burgess dei Charlatans (che si sentirà anche omaggiato dal loro stile),
l’album è registrato nei Parr Street Studios di Liverpool sotto la guida dei
produttori e Chris Taylor e James Skelly dei Coral, che hanno di non poco
pulito il suono rispetto alle loro prime registrazioni (basta sentire la vena
radiofonica dell’aperura di Circles Of Faith o il remake di un loro
vecchio brano decisamente Smiths-dipendente come The Great Escape),
lasciando però spazio libero alle chitarre di segnare il suono, che è giocato
spesso sul jingle sound dell’elettrica di Scott Concepcion e l’acustica di
Moore. Tante pop-song da cantare in macchina, con qualche momento di
riflessione (la title-track) o divertenti divagazioni in zona Madness (I See
Your Ghost). Nulla di nuovo, anzi, qualche giro pare davvero di averlo già sentito
(non so se poi Paul Heaton li chiamerà per l’attacco tutto Housemartins di Oh
My Love), ma in qualche modo il disco suona fresco e fa prendere una sana
boccata di positività al mondo del pop inglese.
VOTO: 7
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