Courtney
Barnett - Things Take Time, Take Time
Rough Trade, 2021
Come recitava il titolo del suo
primo acclamato disco del 2015, Courtney Barnett certe volte si siede e pensa,
ma altre si siede e basta. La costante è quel sedersi, immagine che si sposa
bene con la sua musica, un indie-folk figlio di mille madri artistiche e
spirituali, non certo rivoluzionario, ma che almeno le ha permesso di uscire
dalla nicchia della scena australiana, trovando applausi un po’ ovunque nel
mondo anche col secondo album Tell Me How You Really Feel. Things Take Time,
Take Time arriva con la sua solita cadenza triennale, ma il titolo stesso
suggerisce che lei di fretta di alzarsi non ne ha poi troppa, perché la sua
penna ha bisogno di tempi e spazi larghi. Registrato in patria con l’ausilio
della batterista dei Warpaint Stella Mozgawa, anche in veste di
produttrice, rinunciando così alla sua band abituale anche in sede di scelte
produttive, il difficile terzo disco è il classico prodotto di una artista che
ora che sa che là fuori qualcuno l’aspetta con una certa ansia, può anche
permettersi di parlare un po’ più difficile, e soprattutto di parlare ancora
più di e a sé stessa. Il tono volutamente intimista dei testi di queste canzoni
si riversa su una struttura sonora scarna e una vocalità poco ammiccante alla
melodia, il che rappresenta la sua caratteristica, ma in alcuni casi forse
anche il suo limite. Il disco ha infatti una partenza un po’ faticosa, prima
che un brano davvero riuscito come Turning Green faccia uscire il tutto dall’atmosfera
anticamente lo-fi di brani come Rae Street, Sunfair Sundon o Here's the Thing. A
quel punto l’album nella seconda parte trova un suo equilibrio, ma la scelta di
fare tutto da sole (uniche musiciste attive sono lei e la Mozgawa) diventa
coraggiosa quanti un po’ penalizzante. Insomma, se i brani continuano a
dimostrare quanto sia una brava autrice (If I Don't Hear from You Tonight, Write
a List of Things to Look Forward To), la produzione non arriva a scegliere se
fare di essenzialità virtù o cercare qualche spunto di novità che rimane solo
accennato, con un utilizzo dell’elettronica in chiave folk che non solo non pare
più una novità, ma comincia pure a suonare decisamente vintage. La sensazione
che rimane, quando le ultime note della bella On The NIght svaniscono, è che
questa volta la Barnett abbia pensato solo a sé stessa, lasciando il tutto
formalmente più vicino ad un demo, e con un atteggiamento anti-formale e
minimale alla Jonathan Richman che oggi però non pare più così affascinante. E non
è difficile immaginare che un giorno parleremo di questo album come del suo “Period
of Transition”, per citare un noto titolo di Van Morrison (una curiosità per
chi ama le coincidenze, i due dischi hanno più o meno la stessa frettolosa
lunghezza di circa 33 minuti e 50 secondi), che è comunque un lusso che si
possono permettere solo gli artisti già maturi e affidabili.
VOTO: 6,5
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