Parquet Courts -
Sympathy for Life
Rough Trade, 2021
Credo che non esista discussione più inutile
di quella che sta accompagnando il gran successo internazionale dei Måneskin,
visti da qualcuno come una possibile rinascita del rock, inteso nel termine più
stretto di musica “guitar-based”. Ovviamente il rock non è mai passato di moda,
semmai è da tempo entrato in una fase di consolidata crociera della sua storia,
e per illustrare il concetto credo che i Parquet Courts, band dal 2011
sulla breccia con moderato ma costante successo, siano un buon esempio da
portare. Soprattutto perché il loro nuovo album Sympathy for Life dimostra
quanto ormai sia veramente inutile suddividere culture un tempo più nettamente antagoniste
come quella dei rockers da garage e quella dei dance-clubbers da nottata in
discoteca (insomma, la lezione dei Primal Scream non è passata invano). Qui,
infatti, i cambiamenti di un suono nato con ispirazione puramente rock (direi
genere “post-Strokes”) dieci anni fa, che già si erano palesati nel precedente
Wide Awale! (dove la presenza di Danger Mouse si faceva sentire), si trasformano
in un ben più marcato cambio di direzione. Sempre di New York si tratta, solo
che i quattro si fanno aiutare da varie collaborazioni a salire dalla cantina
alla sala da ballo dei club della Big Apple. Non certo un atto rivoluzionario
insomma (in fondo cambi di rotta simili li abbiamo sentiti negli ultimi anni da
Beck o persino dagli Arcade Fire). Prodotto da Rodaidh McDonald (The XX
e King Rule tra le sue collaborazioni più note, ma anche David Byrne si è
avvalso dei suoi servizi), il disco era in verità pronto da prima della
Covid-era, a parte un brano aggiunto (Marathon of Anger, brano dedicato al
movimento Black Lives Matter) e due poi ritoccati nientemeno da John Parish, ma
ovviamente un album del genere avrebbe avuto senso in tempi in cui ci si poteva
accalcare nelle feste e non certo nell’isolamento del lockdown. Eppure, i brani
proprio di quello parlano, con riflessioni su incomunicabilità e solitudine
come Homo Sapien Applicatus Apparatus o la stessa title-track. Difficile dire
subito se la svolta sia riuscita, sicuramente la band di Andrew Savage ha vinto
con questo album la sfida di dimostrare di poter evolvere nel tempo e di non
essere solo una mezza cover-band di modelli passati, ma è anche vero che
qualcosa si è perso in termini di rabbia e vigore della loro musica. Che è rock
pur non essendolo più, che non è morto neppure in questo mare di batterie
programmate e bassi pulsanti (anche se il singolo Black Widow Spider è un
delizioso e classicissimo power-pop ispirato a loro detta a On The Road Again
dei Canned Heat), e quindi inutile fare distinzioni, al massimo segnalare che
il gioco si fa un po’ ripetitivo esaurita la sorpresa e, seppur i testi siano
tutt’altro che spensierati e superficiali, la scrittura delle canzoni non è
quella da autore di primo livello. Per il resto i Parquet Courts almeno ci
provano a trovare una sintesi al tutto, rendendo le discussioni tra partigiani
della musica sempre più obsolete.
VOTO: 6,5
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