My
Morning Jacket
My
Morning Jacket
(ATO
Records, 2021)
File Under:
Rock and roll pastiche
Mi sono convinto che in fin dei
conti a Jim James piaccia davvero risultare imprendibile da una qualsiasi
definizione, costi quel che costi. Gli piace sapere che difficilmente
riusciremo a spiegarvi il contenuto di questo nono album in 23 anni di carriera
dei suoi My Morning Jacket, misteriosamente uscito senza titolo (che
significa Jim, un nuovo inizio? Lo stampatore ha mandato in produzione le
copertine dimenticandosi il titolo?), e che ancora una volta scriveremo che
qualcosa è andato storto nella sua frenetica ricerca musicale, dopo quella
doppietta di buoni dischi (It Still Moves del 2003 e Z del 2005)
che davvero avevano ben capitalizzato l’amore per il prog di molte band
americane degli anni 90 (i Phish ad esempio) in uno stile che apriva non poche
porte future. Poi quelle porte James non ha saputo tenerle ben spalancate, con
dischi che ancora dobbiamo capire come Evil Urges o la doppia uscita di The
Waterfall (due volumi usciti nel 2015 e 2020) che parevano la fiera
dell’indecisione sulla strada da intraprendere. Qui invece all’inizio sembra
che James voglia riprendere finalmente le fila del discorso, visto che già al
terzo brano James infila un pezzo davvero bello e ben riuscito come In Color,
che riprende tutti gli elementi di mix tra Americana e svisate psichedeliche
che tanto ci erano piaciute, e che avevano trovato la loro esaltazione definitiva
nel monumentale live Okonokos del 2006. Poi però anche questa volta, proprio
quando ci si rilassa davanti al fatto che forse possiamo si parlare di ritorno
ancor più che di ripartenza, eccolo infilare brani davvero difficili da
decifrare o fuori contesto come il quasi pop elettronico di Lucky to Be
Alive o il rock di grana grossa di Complex, dove James cede ancora
una volta alla tentazione di cercare e rivisitare un suono che piace ad un
pubblico più giovane che (si arrenda) non potrà mai essere il suo. Insomma,
siamo alle solite, sebbene il disco abbia alcune frecce davvero riuscite da
scagliare, a conferma che il suo talento non si discute, i My Morning Jacket
scivolano ancora una volta sulla buccia di banana della voglia di dire tutto in
poco tempo, e di mettere troppi ingredienti ad una zuppa che invece pareva già
buona senza bisogno di ulteriori spezie. Non so neanche se sia questione della
mancanza di un produttore che ne limiti la tracotanza (James fa tutto da solo),
o che forse ci vorrebbe qualche intervento esterno a dare nuova linfa alla
lin-up della band, stabile fin dal 2004 intorno alle chitarre del bravissimo
Carl Broemel, ma almeno metà di questo album ritrova una vena interessante che
l’altra metà affossa nella confusione, e sono queste davvero le occasioni perse
che fanno più arrabbiare.
Nicola Gervasini
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