Bonnie Raitt
Just
Like That…
(2022, Redwing Records)
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Anni fa assistetti ad una gag sul
palco tra John Hiatt e Lyle Lovett, in cui John ringraziava Bonnie Raitt
di aver pagato ai suoi figli l’Università grazie al successo della sua versione
di Little Thing Called Love, mentre Lovett fingeva risentimento perché
Bonnie non aveva riservato lo stesso trattamento ad una delle sue canzoni. È
forse tutto in questa scenetta il senso della carriera di Bonnie Raitt, fin dai
suoi esordi una sorta di trait d'union tra il mondo del blues, la canzone
d’autore anche più oscura degli anni settanta, e il pubblico mainstream degli
airplay radiofonici. In cinquant’anni di carriera la Raitt ha reso hit canzoni
che in mano ai loro autori restavano relegate al mondo dei cultori, e il suo
più grande merito è stato quello di non aver mai perso questa gran capacità di
far salire a galla canzoni bellissime che meritavano una audience più vasta. In
questo lei ci ha messo una voce gradevole, un grande appeal melodico, uno stile
chitarristico caratterizzato da un uso della slide molto simile a quello
del compianto Lowell George dei Little Feat (che la portò ad essere definita la
prima donna bianca ad essere stimata dai bluesman neri), e produzioni sempre di
gran livello, anche nel suo periodo più commerciale e mainstream dei primi anni
90. Da anni la Raitt pubblica poco ma sempre bene, e non fa eccezione questo
suo diciottesimo album intitolato Just Like That..., che presenta la sua
solita formula fatta di funky (Made Up My Mind), ballate eleganti e
intime (Something Got A Hold Of My Heart, brano di Al Anderson), sano
old time rock and roll (Livin’ For The Ones), confessioni sussurrate con
una chitarra acustica (la bellissima Just Like That), notturni feeling
bluesy (When We Say Goodnight), balzellanti reggae (Love So Strong,
un pezzo dei Toots & the Maytals), se non proprio veri e propri blues (Blame
It On Me). Il disco è a tratti molto personale, con un evidente impegno
nelle liriche a sondare i misteri dei rapporti amorosi che ancora la animano
dopo una vita anche abbastanza burrascosa. Nelle interviste racconta di aver
avuto l’impulso a tornare a cantare anche brani suoi dalla morte di John Prine,
che considera il suo maggiore riferimento da songwriter, e direi che nel finale
di Down The Hall l’influenza pare evidente. Il disco resta formalmente
ineccepibile, a tratti anche troppo, con quella distante perfezione delle sue
produzioni che la rende anche un po’ fredda per certe orecchie abituate a
cercare più polvere e sudore in questa musica. Potremmo vederla come il lato
levigato e ingentilito di Lucinda Williams, e nel ruolo continua ad essere una
delle migliori sulla piazza, anche se non è a lei che chiederemo mai di
sconvolgerci la vita.
Nicola Gervasini
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