Kurt Vile
(watch my moves)
(verve,2022)
File Under: nuovi talking blues
Credo
che il miracolo più grande possa accadere ad un artista è quello di trovare un
personale modus operandi che lo distingua sempre e comunque dalla massa. Se il mondo
musicale che seguiamo da anni è popolato da miriadi di nomi, il gruppo di
artisti che possiamo usare come riferimento stilistico o comunque riconoscere
per un certo tipo soluzione stilistica abbastanza esclusiva, sono davvero
pochi. Kurt Vile, tra le generazioni più recenti, aveva raggiunto questo
importante traguardo, sicuramente grazie agli album Wakin on a Pretty Daze
del 2013 e Bottle It In del 2018, incamerando quello che è un suono
folk-pop un po’ allucinato che va anche abbastanza di moda di questi tempi, in personalissimi
e verbosissimi sproloqui che spesso allungano parecchio le sue canzoni. Potremmo
quasi dargli il merito di aver inventato delle pop-song da 6-7 minuti di media,
dove il ritornello quasi non lo aspetti più perché presi dai suoi ipnotici
semi-talking. In questo senso questo nuovo album, intitolato (watch my
moves), da scrivere minuscolo e tra parentesi come se fosse un timido e
non invadente invito a occuparci di lui, non si discosta dalla formula, se non
per la nota produttiva che lo ha visto registrare il disco nella solitaria clausura
dei lockdown. Tempi lunghi (73 minuti), ben 14 brani (più una brevissima
intro), con una ricercata e ossessiva monotonia nel canto che rende il tutto
uniforme: la maggior parte degli artisti uscirebbe sconfitto da un tour de
force del genere, ma non Vile che, nonostante l’album appaia come un capitolo
più stanco e forse di passaggio del suo nuovo viaggio, riesce a far reggere
ancor il tutto senza annoiare. Lo aiutano in questa impresa alcuni amici
collegati in remoto, come i Violators, Sarah Jones che gli fornisce le
percussioni di Flyin (Like A Fast
Train e Hey Like A Child, Cate
Le Bon e Stella Mozgawa che uniscono le forze
per rendere Jesus On A Wire uno dei brani più rappresentativi della
nuova raccolta, il sax di James Stewart (Sun Ra Arkestra) che porta tocchi quasi
free-jazz a Goin On A Plane Today e Like Exploding Stones.
Sono diversivi utili, ma va detto che Vile se la stava comunque cavando bene da
solo, raccontando le sue allucinate storie (sembra quasi ambire a diventare il
nuovo Julian Cope o Robyn Hitchcock in quanto a visionarietà di argomenti) con
fintamente annoiata convinzione in tutti gli altri brani, con una personalità
decisamente forte, tanto che anche la cover di Wages Of Sin, uno scarto
del Bruce Springsteen del periodo Nebraska (pubblicato poi nel cofanetto
Tracks del 1998), finisce quasi per confondersi tra le altre canzoni come un
qualsiasi brano autografo. Se è vero che il gioco è bello se dura poco,
(watch my moves) rappresenta quel momento in cui siamo alle fasi finali del
divertimento, già stanchi ma ancora euforici, ma conserva ancora i tratti dell’opera
importante che si differenzia dalla massa, e di questo va reso merito a Vile.
Nicola
Gervasini
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