Orville Peck
Bronco
(Columbia 2022)
File Under: New Elvis
Chiedersi come possa il
cantautorato di marca country porsi in modo moderno negli anni venti è domanda
lecita, rispondere come sta facendo il sudafricano/canadese Orville Peck
potrebbe anche essere una delle possibili soluzioni. Partiamo dalla conclusione
a questa risposta: quello che sta portando Peck ad essere ascoltato da orecchie
che mai avrebbero di loro spontanea volontà affrontato questi suoni è il personaggio
che si è creato, un cowboy mascherato un po’ glamour che sta a metà tra la star
del rockabilly The Phantom (dimenticato artista degli anni ’50 che si presentava
con una maschera nera sugli occhi) e il cowboy dei Village People, con annesso
il già visto giochino di tenere nascosto il suo vero volto (dai Kiss ai Daft
Punk a Miss Keta, credo che prima o poi la tentazione verrà ancora a qualcuno).
Gioco riuscito, perché i suoi video sono affascinanti, e lui (mi dicono,
purtroppo la pandemia mi ha impedito di verificarlo personalmente) sul palco ci
sa fare davvero. E la musica? Ecco, qui le cose fortunatamente vanno ancora benino,
perché il disco di esordio Pony aveva abbastanza sostanza da suscitare
qualche applauso anche nelle rigide camere degli amanti della roots musica
americana, e questo Bronco, pur perdendo già qualche colpo, riesce
perlomeno a non essere un seguito completamente deludente. Anzi, a voler essere
positivi, si potrebbe plaudire al fatto di aver resistito alle sirene della
modernità, ed essersi arroccato in una ElvisPresley-mania ormai spinta, anzi,
dichiarata nel pezzo migliore dell’album Outta Time (“She tells me she
don't like Elvis, I say, I want a little less conversation, please”). Insomma, Bronco
viene a dirci che Orville Peck dietro la maschera è un vero cultore della
materia, che di certo ha studiato bene i classici, e che anche il fatto che scriva
di suo pugno tutti i brani del disco è segno che ha delle gambe tutte sue per
stare in piedi., Ma viene anche a dirci che però, gratta gratta, è ancora solo
un buon scolaro di ben altri maestri, e senza tirare in ballo per forza Presley,
che forse nessuno si azzarderebbe a tentare di eguagliare, basterebbe anche
solo un Chris Isaak, primo nome che viene in mente ascoltando le chitarre
suadenti e “wickedgamesiane” di Duncan Jay Hennings, per fare una
differenza di statura. E per chiudere il discorso intrapreso inizialmente,
forse il modo migliore per portare fuori dai suoi recinti questa musica resta
ancora quello provato con successo da un Chris Stapleton o dal Daniel Romano
più classicista. Credo che Bronco, che resta un album comunque piacevole per
quanto anche presto dimenticabile, deluderà però molti di quelli che ci avevano
visto un personaggio pittoresco utile anche a ballare una scomposta line-dance
in discoteca tra un reggaeton e un altro, ma forse meglio così, magari un
giorno anche lui si toglierà la maschera e ci parlerà di sé stesso. La voce e
la penna per farlo in maniera convincente le ha, ora serve solo che si scelga
un pubblico di riferimento a cui raccontare le sue storie.
Nicola Gervasini
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