domenica 4 settembre 2022

Orville Peck

 


Orville Peck

Bronco

(Columbia 2022)

File Under: New Elvis

 

Chiedersi come possa il cantautorato di marca country porsi in modo moderno negli anni venti è domanda lecita, rispondere come sta facendo il sudafricano/canadese Orville Peck potrebbe anche essere una delle possibili soluzioni. Partiamo dalla conclusione a questa risposta: quello che sta portando Peck ad essere ascoltato da orecchie che mai avrebbero di loro spontanea volontà affrontato questi suoni è il personaggio che si è creato, un cowboy mascherato un po’ glamour che sta a metà tra la star del rockabilly The Phantom (dimenticato artista degli anni ’50 che si presentava con una maschera nera sugli occhi) e il cowboy dei Village People, con annesso il già visto giochino di tenere nascosto il suo vero volto (dai Kiss ai Daft Punk a Miss Keta, credo che prima o poi la tentazione verrà ancora a qualcuno). Gioco riuscito, perché i suoi video sono affascinanti, e lui (mi dicono, purtroppo la pandemia mi ha impedito di verificarlo personalmente) sul palco ci sa fare davvero. E la musica? Ecco, qui le cose fortunatamente vanno ancora benino, perché il disco di esordio Pony aveva abbastanza sostanza da suscitare qualche applauso anche nelle rigide camere degli amanti della roots musica americana, e questo Bronco, pur perdendo già qualche colpo, riesce perlomeno a non essere un seguito completamente deludente. Anzi, a voler essere positivi, si potrebbe plaudire al fatto di aver resistito alle sirene della modernità, ed essersi arroccato in una ElvisPresley-mania ormai spinta, anzi, dichiarata nel pezzo migliore dell’album Outta Time (“She tells me she don't like Elvis, I say, I want a little less conversation, please”). Insomma, Bronco viene a dirci che Orville Peck dietro la maschera è un vero cultore della materia, che di certo ha studiato bene i classici, e che anche il fatto che scriva di suo pugno tutti i brani del disco è segno che ha delle gambe tutte sue per stare in piedi., Ma viene anche a dirci che però, gratta gratta, è ancora solo un buon scolaro di ben altri maestri, e senza tirare in ballo per forza Presley, che forse nessuno si azzarderebbe a tentare di eguagliare, basterebbe anche solo un Chris Isaak, primo nome che viene in mente ascoltando le chitarre suadenti e “wickedgamesiane” di Duncan Jay Hennings, per fare una differenza di statura. E per chiudere il discorso intrapreso inizialmente, forse il modo migliore per portare fuori dai suoi recinti questa musica resta ancora quello provato con successo da un Chris Stapleton o dal Daniel Romano più classicista. Credo che Bronco, che resta un album comunque piacevole per quanto anche presto dimenticabile, deluderà però molti di quelli che ci avevano visto un personaggio pittoresco utile anche a ballare una scomposta line-dance in discoteca tra un reggaeton e un altro, ma forse meglio così, magari un giorno anche lui si toglierà la maschera e ci parlerà di sé stesso. La voce e la penna per farlo in maniera convincente le ha, ora serve solo che si scelga un pubblico di riferimento a cui raccontare le sue storie.

 

Nicola Gervasini

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