sabato 22 novembre 2008

DARRELL SCOTT - Modern Hymns


03/11/2008
Rootshighway
VOTO: 7,5
Da queste parti l'aggettivo "professionale" non ha mai avuto un senso sempre positivo: sa di poco sincero, di costruito, di freddo; insomma la professionalità non è filosoficamente "rock and roll". Poi ci capita per le mani un disco come questo Modern Hymns di Darrell Scott, ed eccoci subito servita l'eccezione alla regola. Scott è da almeno quindici anni una delle penne più abusate di Nashville, probabilmente il miglior erede di Rodney Crowell in termini di attitudine a sfornare hit per ugole altrui (le sue canzoni hanno venduto milioni di dischi grazie a Garth Brooks e alle Dixie Chicks). E' anche uno che si è guadagnato stima sul campo come chitarrista, magari con poco acume selettivo nelle collaborazioni (lo si è visto troppo spesso nelle sessions della peggio-Nahsville), ma lasciando comunque tracce importanti, come il lavoro svolto in molti dischi di Guy Clark da Dublin Blues in poi. In tutto questo la sua produzione personale (questo è il quinto album in studio) è sempre passata in secondo piano, anche se i primi due dischi (Aloha From Nashville del 1997 e Family Tree del 1999) potrebbero darvi qualche soddisfazione. Per cui immaginate voi le poche aspettative che si possono avere per un disco di un rigido professionista alle prese con un album di cover, e oltretutto rilette spesso in chiave country-gospel, vale a dire il terreno dove è forse possibile incappare nella musica più deleteria di tutti gli Stati Uniti. Invece, colpo di scena: questi inni moderni sono dodici perle, divinamente suonate in veste acustica multistrato (almeno 4 o 5 strumenti sempre sovrapposti, tra chitarre, banjo e mandolini di altri professionisti come Danny Flowers, Tim O'Brien o Dirk Powell), e realizzate mixando perizia da tecnici e grande pathos d'artisti. Colpiscono soprattutto alcuni arrangiamenti, perché riescono spesso a regalare qualcosa in più agli originali, come una American Tune di Paul Simon che chiunque altro avrebbe potuto rendere una retorica patacca da predicatore televisivo, mentre Scott pensa addirittura a de-armonizzare, non concedendo nulla al facile impatto melodico. Che dire poi di come stravolge e regala nuova veste a classici come All The Loving Ladies di Gordon Lightfoot, Jesus Was A Capricorn di Kris Kristofferson, That Old Time Feeling di Guy Clark, la tesa The Devil di Hoyt Axton e altri brani di John Hartford, Adam Mitchell e Mickey Newbury. Urge For Going di Joni Mitchell qui è diventata una perfetta bluegrass-song, e se l'immancabile Bob Dylan se ne sta in disparte con una non trascendentale I Don't Believe You, i sette minuti della Joan Of Arc di Leonard Cohen, recital a tre voci con Mary Gauthier e Alison Krauss, rappresentano l'highlight emotivo del disco. L'amore per il jazz si sfoga poi nello strumentale James, brano del duo Pat Metheny/Lyle Mays che vede un divertito Danny Thompson al basso. Onore dunque a Darrell Scott per aver reso conturbante un disco che rischiava di essere solo la solita inutile passerella di canzoni e autori Vip. (Nicola Gervasini)

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