24/10/2008
Rootshighway
VOTO: 7,5
Pronti…partenza…via!.Riff...batteria…hey, il basso! Dov'è il basso?...Stop!...ok, ripartiamo subito…di nuovo riff…batteria…basso…partiti!...vai Lucinda, tocca a te: "ho trovato l'amore che cercavo stando dietro una chitarra elettrica, è un amore vero, è un amore vero"…ecc...ecc...
Ecco, questa è la cronaca del primo minuto di Little Honey, e basterebbe per parlarne per pagine e pagine. Lucinda Williams è tornata, e anche in fretta stavolta, con l'urgenza di dire poche e semplici cose: che sta bene, che ha smesso di rimuginare sulle proprie sofferenze e, soprattutto, che ha voglia di suonare tanto rock. Un messaggio chiaro da quei primi versi di Real Love, dove la soluzione di tutto era sempre stata lì, dietro una chitarra. Ma si poteva iniziare benissimo dalla fine del disco per ricevere la stessa comunicazione, dalla cover di It's A Long Way To The Top, un titolo che nel 1975 per gli allora esordienti AC/DC suonava come una speranza (poi avveratasi) di poter suonare rock and roll per una vita, ma che oggi appare quanto mai autobiografico anche per lei, che al top, libera di fare rock and roll, ci è arrivata davvero dopo una lunga strada. Se era apparso palese che West le fosse servito soprattutto a svuotare l'anima da tutte le disperazioni, Little Honey arriva per riempirla di nuovo con il campionario d'ordinanza di una musicista rootsy: tanto country sempre (Well, Well, Well tira in ballo addirittura Charlie Louvin), ma anche molto blues (Heaven Blues), gospel (la lunga Rarity) e persino soul (Tears Of Joy è una sorta di country-soul, la suadente Knowing sciorina una inaspettata sezione fiati).
Stili, idee, suoni prima ancora che canzoni, è questa la grande novità portata da Little Honey nella carriera di Lucinda Williams, un disco nato per essere suonato prima ancora che ascoltato, dove la chitarra di Doug Pettibone è libera di essere protagonista indiscussa e di toglierle spazio in Honey Bee, e la sezione ritmica David Sutton e Butch Norton pompa ritmo pestando selvaggiamente come sul palco. Ed è anche il suo primo disco auto-celebrativo, evidente in quell' omaggiare la sé stessa che fu recuperando schegge impazzite perse nel tempo (la strascicata Circles and X's è del 1985), oppure lasciando che un mostro sacro come Elvis Costello incasini la melodia di Jailhouse Tears per glorificare la propria ammissione nel gotha del rock che conta. E in questo turbine di esercizi di stile, persino le sue tipiche ballate struggenti (Little Rock Star, If Wishes Were Horses e l'acustica e bellissima Plan To Marry) acquisiscono una insolita leggerezza. Little Honey non sarà mai ricordato come uno dei suoi dischi più rappresentativi, non ha lo spessore dei suoi predecessori e ne conserva persino alcuni difetti (ad esempio l'eccessiva prolissità), ma è il disco dove per la prima volta Lucinda non si atteggia a fare la rocker vissuta e non ostenta più le proprie cicatrici, ma fa semplicemente la rock-singer. E un disco così non serviva solo a lei.
Stili, idee, suoni prima ancora che canzoni, è questa la grande novità portata da Little Honey nella carriera di Lucinda Williams, un disco nato per essere suonato prima ancora che ascoltato, dove la chitarra di Doug Pettibone è libera di essere protagonista indiscussa e di toglierle spazio in Honey Bee, e la sezione ritmica David Sutton e Butch Norton pompa ritmo pestando selvaggiamente come sul palco. Ed è anche il suo primo disco auto-celebrativo, evidente in quell' omaggiare la sé stessa che fu recuperando schegge impazzite perse nel tempo (la strascicata Circles and X's è del 1985), oppure lasciando che un mostro sacro come Elvis Costello incasini la melodia di Jailhouse Tears per glorificare la propria ammissione nel gotha del rock che conta. E in questo turbine di esercizi di stile, persino le sue tipiche ballate struggenti (Little Rock Star, If Wishes Were Horses e l'acustica e bellissima Plan To Marry) acquisiscono una insolita leggerezza. Little Honey non sarà mai ricordato come uno dei suoi dischi più rappresentativi, non ha lo spessore dei suoi predecessori e ne conserva persino alcuni difetti (ad esempio l'eccessiva prolissità), ma è il disco dove per la prima volta Lucinda non si atteggia a fare la rocker vissuta e non ostenta più le proprie cicatrici, ma fa semplicemente la rock-singer. E un disco così non serviva solo a lei.
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