Rootshighway
VOTO: 7
"Un disco che parla di muoversi e cercare qualcosa di nuovo, di occasioni perse, di promesse su orizzonti distanti…" E' la stessa Jolie Holland a coniare questa definizione per presentare il suo quarto album The Living And The Dead, quasi a volere fin da subito legare il disco ad un immaginario culturale ben definito. Lei è la versione moderna della femme fatale del jet set musicale che conta, vale a dire una famiglia che comprende Tom Waits, Nick Cave, Joe Henry e tanti altri, tutti riuniti sotto il marchio dell'Anti, un'etichetta che crede molto in una forma evoluta e sperimentale di canzone roots. Sicuramente il suo Escondida del 2004 è stato un punto importante per ridefinire il songwriting femminile odierno, e da allora la Holland (che ha un passato da vera roots-girl con le Be Good Tanyas) si è parecchio atteggiata a donna di gran classe e cultura, frequentando i salotti buoni della borghesia del folk intellettuale e cercando la collaborazione dei qui presenti M Ward, Marc Ribot e Jim White, tutti a loro modo tradizionali e cerebrali al tempo stesso nel modo di concepire il nuovo folk. The Living And The Dead cerca poi riferimenti culturali ben marcati fin dalle storie che racconta, vuoi quando si porta a letto mezza Beat Generation nell'iniziale Mexico City, Jack Kerouac compreso, vuoi quando racconta ancora una volta l'orrore di non poter riconoscere un amico ormai ridotto ad un borderline-junkie dalla droga (Corrido Por Buddy). E poi c'è il mondo di citazioni, volute e non, che si porta inesorabilmente in ogni disco, vuoi l'arpeggio alla Lou Reed di You Painted Yourself In, vuoi il distorto riff inventato da M Ward per aprire Your Big Hands che riesce a trasformare una stramba folk-song in una sorta di Honky Tonk Women ubriaca. Il mondo di Jolie era questo anche nei dischi precedenti, ma l'impalcatura di The Living And The Dead stavolta non riesce a nascondere una certa normalizzazione della sua scrittura, che comincia a fare leggermente a pugni con l'aura da avanguardia dell'entourage che la circonda. Rigiratela come volete, ma Palmyra resta una semplicissima e dolcissima folk-song sulle difficoltà nei rapporti umani, l'acida e rallentata Fox In The Hole, se spogliata del zigzagare sulla sei corde di Ribot, finisce pure per somigliare ad una delle tenui poesiole di Suzanne Vega. E quando è il testo stesso ad essere un traditional di quelli più volte saccheggiati da Dylan (Love Henry), la voglia di stupire si esaurisce in una lunga e faticosa versione con voce filtrata, degna del Tom Waits più lezioso e auto-compiaciuto. Finale a doppio registro, con la seriosa The Future e la sgangherata festa tra amici di Enjoy Yourself, a ribadire che in questi dieci brani c'è veramente di tutto, belle canzoni e momenti emozionanti mischiati ad episodi poco riusciti. Fortunatamente c'è sempre la voce di Jolie, forse la cosa davvero più particolare ed estranea al mondo dell'omologata normalità che qui si vuole a tutti costi evitare. (Nicola Gervasini)
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