venerdì 11 giugno 2010

JOSH RITTER - So Runs The World Away




"Senza direzione e alla deriva da qualche parte nell'oscurità". Basta leggere i versi di Change Of Time che aprono il sesto disco di Josh Ritter per capire subito che stavolta non avremo a che fare con il suo famoso "bright smile", quella sua inconfondibile delicatezza che ha reso dischi come Hello Starling o The Animal Years dei "must" di questo decennio. Qualcosa sta cambiando anche negli umori di questo timido songwriter, se è vero che So Runs The World Away è forse il suo disco più sofferto, fin dal titolo che parla di un mondo che sfugge e dalla malinconica copertina. E la storia insegna che è proprio da questi momenti di passaggio della vita, dolorosi ma necessari, che nascono o dei capolavori, o come in questo caso dei dischi emotivamente stravolgenti quanto spigolosi e non risolti, perché appunto viaggiano "senza direzione e alla deriva …". "Sei maledetto?" gli chiede la protagonista nel finale della bellissima ballata pianistica The Curse, "No, penso di essere guarito" risponde lui, e poi la bacia sperando però che lei abbia già dimenticato la domanda.

Ed è proprio questo senso di dannazione nascosta e incomunicabile che si respira in queste canzoni, dove Ritter ha dato sfogo a mille sentimenti contrastanti, lasciandosi cullare dalle dolci note di Southern Pacific per poi non darsi pace con il blues di Rattling Locks ("c'era un tempo in cui avevo la chiave giusta…"). Ed è lo stesso Ritter che abbandona subito l'insolita spavalderia di arrangiamenti e soluzioni esposta nel precedente The Historical Conquest per trincerarsi nella triste e classicissima giga di Folk Bloodbath, melodia già scritta mille volte nel tempo, stavolta al servizio di una delle più riuscite dark-story del suo repertorio. Eppure a volte appare anche fin troppo indeciso sulla strada da intraprendere, e viaggiando a tentoni nel buio inciampa in qualche episodio davvero minore per i suoi standard (l'accoppiata Lark e Lantern uccide non poco la splendida tensione tenuta fino a quel momento dal disco), sperimentando senza trovare sempre la formula giusta (la monotona The Remnant poteva trovare sviluppi migliori) o cercando nuovi giochi vocali perdendo un po' di vista la canzone (See How Man Was Made).

Ma il tormento lavora così, spinge Josh a creare l'inizio di una grande opera per poi farlo piombare nel più classico degli album di transizione, ma ci pensano i sette minuti e passa di Another New World a togliere qualsiasi insano dubbio sulla sua tenuta artistica: solo uno dei grandi può infatti scrivere un brano così perfetto, calandosi nei tormenti di un Cristoforo Colombo in cerca di un nuovo mondo, che ha tutta l'aria di non essere neppure quello descritto in questo diario di bordo. Sul futuro, come sul finale di Long Shadows, calano le lunghe ombre dell'ignoto, ma noi marinai dobbiamo solo avere fiducia in questo giovane capitano, sembra che abbia un po' perso la rotta, ma nel brano conclusivo ci tranquillizza cantando "non ho paura del buio, ci sono già stato prima".
(Nicola Gervasini)

Rootshighway, 10/5/2010

1 commento:

Maurizio Pratelli ha detto...

un gran disco di capitano Josh!

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