Alla Anti le selezioni dei nuovi artisti devono essere durissime e pignole fino al particolare, se no non si spiega come questa etichetta, che negli anni 2000 ha giocato un ruolo davvero fondamentale anche al di là dei suoi nomi più blasonati (Tom Waits, Nick Cave, Joe Henry), possa sempre mantenere un’identità stilistica ben precisa e riconoscibile. Ultimamente loro vanno molto fieri di aver preso sulla nave il giovane newyorkese Sean Rowe, due album già all’attivo da indipendente e un look da perfetto indie-rocker (quindi barba d’ordinanza, anche se per la foto del retrocopertina se l’è sistemata come per le occasioni speciali). Magic, album che l’autore distribuisce autonomamente già da un paio d’anni, è la prima uscita sotto la loro bandiera, e al di là di un titolo poco caratterizzante e di una fuorviante copertina da gruppo indie, è un’opera puramente dedita ad un folk gotico ed oscuro. La presentazione della casa vorrebbe la sua musica figli diretta di Leonard Cohen e Van Morrison (quello di Astral Weeks ovviamente), ma sentita la voce, finisce davvero per sembrare una piccola clonazione del Mark Lanegan dei primi anni 2000. I dieci brani qui presenti richiedono dedizione e luci soffuse, silenzio e meditazione, visto che solo il singolo Jonathan e la canticchiabile melodia di Wrong Side Of The Bed provano a scrollarsi di dosso l’indolenza generale. Siete avvisati quindi, Magic potrebbe essere un disco noioso se lo ascoltate nel momento sbagliato, ma sappiate che è davvero un bell’album, registrato con il vocione di Sean in primissimo piano e la scarna strumentazione in sottofondo, il tutto senza mai perdere di vista la piena fruibilità e immediatezza dell’insieme. Surprise apre l’album ed è davvero una sorpresa per come fa vibrare i vetri con il suo tono baritonale, così come le meditabonde Time To Think e Night (i titoli parlano chiaro, ma i testi ancora di più) che traghettano il disco fino all’unico momento elettrico rappresentato da Jonathan. Importante anche non perdere di vista le sue parole, perché Sean denota una capacità evocativa non banale nel tracciare emozioni che derivano dall’amore e dall’osservazione della natura che lo circonda (in questo è forse davvero avvicinabile al Van Morrison più riflessivo e innamorato della poesia di Yeats), con un senso religioso puramente pagano che traspare soprattutto in Wet e The Long Haul (ma fatevi un giro anche sul suo blog tutto dedicato alla simbiosi uomo-natura). Per cui pazienza e concentrazione, mettetevi comodi sul divano e godetevi il racconto di American con le sue sapienti orchestrazioni alla Nick Drake (o più propriamente alla Robert Kirby), e queste canzoni che non aggiungono nulla a quanto il folk indipendente ha saputo esprimere in questi anni, ma sicuramente ne rappresentano una delle migliori espressioni.
Nicola Gervasini
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