Bitter Day
(Udedi/901 Mississippi 2013)
File Under: Italsoul
Dopo anni di letargo, sommerso da rap, R&B e hip-hop, il
classic-soul è tornato decisamente alla ribalta negli ultimi dieci anni a
livello internazionale, per cui è lecito aspettarsi una conseguente ondata
italiana di genere. Nel nostro sottobosco amatoriale la passione per la
black-music 60-70 non è mai venuta meno in fondo, fin da quegli anni ottanta quando
sulla scia del successo dei Ladri Di Biciclette (che fallirono però l’ingenuo
tentativo di trovare una via credibile “in italiano”) fiorirono una miriade di
emuli a livello amatoriale, spesso non sempre adatti al ruolo, tanto che da
sempre bisogna sempre essere molto selettivi nello scandagliare il pentolone
soul nostrano. Per questo segnaliamo l’esordio dei cosentini Soul Pains, perché il loro Bitter
Day è innanzitutto un disco che rifugge dalla facile strada delle
cover, e secondo perché il livello produttivo comincia ad essere importante e
curato anche in quei dettagli che fanno ancora la differenza, nonostante oggi
la registrazione di un album non la si neghi più a nessuno. Certo, i giri di
chitarra sono quelli già sentiti in un qualsiasi disco di Sam & Dave, i fiati
seguono partiture che certo non rivoluzionano il genere, e il cantante Mr T
(nickname di Matteo Tenuta) annerisce a forza fin dove può la voce, ma
l’insieme è frizzante, e soprattutto i brani sono ben scritti (particolare
menzione per la title-track, lo spirito di Solomon Burke approva e ringrazia
dall’alto). E gli altri non saranno i nuovi Dap-Kings, ma il livello è
tranquillamente assimilabile agli olandesi De Dijk, che proprio Burke aveva scelto
come backing-band giusto prima di morire per lo splendido Hold On Tight. Tra band, fiati e coriste la band conta undici musicisti,
tutti impegnati a ripercorrere la storia della black music dal soul classico (It Takes Two To Tango) alle smussature
del Philly-sound di Fourth Floor,
allo ska di Promise e Come On, allz sugar-ballad alla Smokey
Robinson di She. Per il resto è puro soul-show
grazie alle ottime performance delle vocalist e ad un combo che pare aver
mangiato sufficiente polvere per reggere il compito. Resta un’operazione di
pura devozione ad un altro mondo, salvata anche dalla grande dose di ironia
profusa in testi e immagine della band, ma se prendiamo per moderni i dischi di
Sharon Jones, allora nessun problema a farsi un giro anche in questo soul
calabrese.
Nicola Gervasini
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