E si sente: il disco è curato al limite dalla over-production nientemeno che da Ryan Adams, tra l'altro aiutato (sempre nientemeno che) da Beck e dallo stesso Rice. Team di serie A, ma risultato che si barcamena a metà classifica purtroppo. La sensazione è che l'occasione sarà persa solo per noi, che forse preferivamo certe spigolature nelle melodie e le chitarre meno garbate sentite nei suo lavori precedenti, mentre qui la partenza con Head Underwater e She's Not Me lambisce le rive di un pop radiofonico che in molti troveranno più che piacevole. Lo fa più che degnamente in ogni caso, ma il senso di leggerezza che pervade The Voyager ha spesso più il sapore del vacuo che della spensieratezza. Anche perché i testi non sono certo quelli da teen-pop, anzi continuano comunque a parlare senza mezzi termini dei suoi trascorsi con la droga, della sua infanzia e di amori ben poco felici (Slippery Slopes, The New You), ma nell'insieme manca all'appello il brano energico e graffiante. Non latitano comunque i momenti di gran livello, soprattutto quando si passa nella splendida Late Bloomer (qui il tocco di Adams è evidente) o si viaggia in zona-Stevie Nicks con Just One Of The Guys (il singolo prodotto dal solo Beck), o anche quando il pop viene sondato nella sua espressione migliore con una convincente You Can't Outrun'Em che sarebbe piaciuta al Tom Petty dell'era Full Moon Fever. Insomma, magari i colleghi di Pitchfork provocano un po' sentendoci rimandi alle Go-Go's, ma davvero ascoltando una perfetta radio-song come Aloha & The Three Johns non andiamo poi troppo lontano. Adams dimostra di avere sensibilità melodica (ma questo lo sapevamo), ma come produttore sceglie sempre la via più semplice e prevedibile, e non pare avere il magic touch di un Ethan Johns, per dirne uno a lui molto caro. The Voyager segue la svolta easy di altre artiste come Grace Potter o Sarah Borges, e forse lo fa decisamente meglio, ma gli album che lasciano segni profondi sono altri. |
sabato 4 ottobre 2014
JENNY LEWIS
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